Prima di ascoltare questo album ho fatto un estensivo ripasso della carriera di Scott Walker. Come uno dei più brillanti crooner di sempre, americano di nascita, europeo nella formazione, sia transitato dalle ambiziose reinterpretazioni del maestro Jacques Brel ad una collaborazione con il più iconico dei gruppi drone, ha quasi del miracoloso.
Soused vede la luce dopo un corteggiamento reciproco: i Sunn O))) nel 2009 si vedono rifiutato un featuring sul massiccio Monoliths & Dimensions da parte di un Walker, è bene ricordarlo, all’epoca già avviato nel suo percorso sperimentale del nuovo millennio.
E solo qualche anno dopo è invece Scott Walker stesso a proporre ai Sunn una lavoro di gruppo ben più sostanzioso.
Soused, questo il titolo scelto, trova più di una definizione:  to plunge into a liquid ma anche to make intoxicated. Se si parla di liquidi, l’unico che può avere concettualmente influenzato una produzione simile è il catrame. Nera e asfissiante la cover, nero e asfissiante quasi ogni singolo dei minuto di ascolto. E un’immersione simile non può lasciare uscire puliti (se già si ha la fortuna di uscirne, parodia velenosa di una venere botticelliana); le due definizioni dell’aggettivo finiscono per integrarsi a vicenda.

Soused vive per trenta secondi: il tempo necessario per dare un’impressione sbagliata all’ascoltatore. Non ci saranno gorgheggi, linee vocali altisonanti, sfoggi d’ugola ma solo tre quarti d’ora di spleen. Se il materiale originale che è andato a comporre i cinque brani è stato pensato e forgiato in prima battuta da Walker, è stato fatto pensando con una ricerca e una sensibilità tutta protesa a cercare un punto d’incontro (parrebbe, più vicino di quanto ci si poteva immaginare) con il radicalismo inquietante del duo di Seattle.
E per i restanti quarantanove minuti? Sono le scudisciate di drum machine a calarci nell’atmosfera di Brando, una spiacevole sessione alla garrota, inframezzata solo dal riff di chitarra sentito all’inizio.
Il titolo della successiva Herod 2014 offre da solo una buona misura del feeling trasmesso, con quella che probabilmente (senza testo alla mano vado a braccio) è una narrazione moderna dell’infanticidio del re di Giudea con almeno due personaggi a parlare: un narratore onniscente che vede le madri nascondere i neonati e l’allucinante comparsa di un Erode dall’intonazione soave che annuncia “I’m closing in, I’m closing in“. Bull e Fetish sfogano finalmente tutta la violenza sonora fino a questo punto passata solo strisciando nell’ombra: la prima cresce lentamente ed esplode a più riprese per spegnersi poi lentamente in cinque minuti post coitali. Fetish si macchia di distorsioni acutissime, effetti sonori degni della Hammer Film e cori da messa nera. Sicuramente è il brano più ricco, carico di suoni ed elettronico del lotto, non necessariamente il più riuscito.
Scott Walker riprende, rielabora e cita se stesso con la finale Lullaby, scritta 15 anni fa per l’istituzione vivente del jazz/cabaret in stile Repubblica di Weimar, Ute Lemper. Viene ripresa con la forza e sfigurata, tra minuti che passano interminabili sostenuti solo dal ticchettìo di un orologio rotto e da echi lontani di reverberi per poi picchiare sui tasti di un organo che soffia nel buio. Gli elementi erano già tutti presenti nell’originale ma qui si forza la mano, l’atmosfera si fa più greve, gotica.

Non me ne vogliano gli incappucciati e i loro fan: qui il gran cerimoniere è il settantenne ex ragazzo d’oro del pop da classifica. Che non è, in verità, onnipresente quanto avrebbe potuto essere e ogni tanto quando si fa sentire si rende anche poco comprensibile nella dizione dei testi, urlati, distorti, malati. Ma lo fa lasciando sempre e comunque un segno nelle carni. The Sun[n O)))] Ain’t Gonna Shine Anymore.

Tracce consigliate: Herod 2014, Lullaby.