Anche se sono ancora relativamente pochi quelli che conoscono il fenomeno Rex Orange County le aspettative per Pony, disco n. 3 di Alex O’Connor, erano alte. I presupposti per fare bene c’erano tutti: due album autoprodotti alle spalle, il featuring con Tyler, The Creatoril supporto a Frank Ocean nei live europei, Glasto, la collaborazione con Randy Newman per la nuova versione del celebre brano di Toy Story You’ve Got a Friend in Me. E poi la giovanissima età che dava (e dà) l’impressione di essere davanti a un predestinato; il diploma della Brit e un’attitudine molto fresca a dispetto di una preparazione accademica. Insomma, parliamo di quel tipo di musicista che ha tutto dalla sua parte. E infatti qualcuno ha nasato l’affare.

Del resto, la genesi delle cose importanti è spesso condizionata da un momento di crisi e oggi il mondo pop maschile ne sta attraversando una di importanti dimensioni. Fatta eccezione per le band ed i soliti Ed Sheeran, George Ezra e il più recente Lewis Capaldi. non sono tantissimi gli stalloni pop da classifica (fagocitati dalle figure (t)rap/hip hop ecc.), a differenza dell’ambito female-pop divenuto ormai il centro dell’universo. Ne è derivata, pertanto, la necessità di ri-creare figure più basiche ed universali, per intenderci un nuovo Robbie Williams. Certo, Rex Orange County non è Robbie Williams, ma è il cavallo buono su cui puntare. Ha talento ed è molto preparato. Buone maniere e cadenza inglese, ma non garibaldina e sguaiata come quella di indomabili purosangue tipo King Krule e slowthai.

Ed ecco che così arriva Pony: la peggiore evoluzione possibile della musica da cameretta, che ha dominato il decennio che sta per volgere al termine.

L’album esce su Sony, sebbene nei suoi 10 brani Alex O’Connor faccia praticamente tutto da solo: suona il piano, la chitarra, i fiati e tutto il resto. Canta, registra e produce (insieme a Ben Baptie). Ma chi conosce il suo passato non può non aver notato un cambiamento radicale rispetto all’esordio di bcos u will never b free e di un meno interessante, ma pur sempre valido, Apricot Princess, album del 2017 finito nella scia di un cane da tartufo come le major.

Nella sostanza Pony è la progressione di Apricot Princess ma qui tra synth, soul, jazz ed un’impronta R&B, risulta impossibile classificare e dare definizioni, proprio perché l’artista è diventato anche un progetto di business e questo (il progetto) risponde ad un’esigenza di mercato che ha perso completamente la bussola. Tutto è mescolato ed è un attimo percepire le influenze degli ABBA (Every Way) o quelle di Jay Kay (Laser Light), nel bel mezzo di quello che vuole a tutti i costi imporsi come il prodotto commerciale della stagione.

L’album, diciamolo subito, non è sgradevole, ma è scolastico ed eccessivamente artefatto. Alex sa suonare praticamente tutti gli strumenti, ma qui ogni cosa sembra di plastica ed è quasi naturale domandarsi se il giorno prima della pubblicazione qualcuno lo abbia rimasterizzato tutto senza dirglielo. Alcuni elementi sono interessanti, come ad esempio gli special ed i bridge che rivelano alcune potenzialità di questo giovane talento che, quando vuole (o quando glielo lasciano fare), sa essere meno scontato. Tuttavia, è nel complesso talmente prevedibile che starebbe bene negli impianti audio della hall di un albergo o della sala d’attesa del dentista.

E, infatti, nonostante il parental advisor in copertina tutto è estremamente innocuo. Ed a livello artistico non c’è niente di peggio di un’etichetta che vuole far apparire un bravo ragazzo come un bad boy, ma solo per finta perché poi quando ascolti l’album non c’è nulla di ribelle. Come a voler dimostrare che anche se sei una major stai offrendo un prodotto alternativo, che in realtà è ancora più costruito ed inquadrato di quelli che vogliono passare come prettamente mainstream.

L’apertura è con 10/10, indubbiamente una delle hit radiofoniche del 2019, ma una delle parti migliori dell’album si esaurisce molto velocemente con intermezzi à la Robbie Williams (cvd). Da Always a It Gets Better, infatti, tutto scorre in modo abbastanza anonimo ed infantile, se non fosse per i citati bridge e special a dare un minimo di originalità al lavoro. Ma è troppo confortante e ordinato, nonostante in alcuni frangenti dia solo l’apparenza di non esserlo con inserimenti casuali di uccellini, versi, o sbadigli. Non ti senti messo alla prova in nessuno modo.

Stressed Out è tra i brani più interessanti e più legati al passato, peccato per le seconde voci che vorrebbero richiamare Frank Ocean e che invece ti catapultano in una puntata di Alvin Superstar. Così come il secondo singolo, Pluto Projector, che ci ricorda che non basta dare una spruzzata di rosso e disegnare un cavallino sul cofano per trasformare un macinino in una Ferrari; né un giovane talento in uno dei suoi idoli. A metà tra il soldino di Super Mario e Space Invaders c’è, poi, Face to Face seguita da Never Had The Balls ottimo brano per la festa di fine anno all’oratorio.

E il songwriting non dà certamente un mano. Più che banale è ripetitivo. L’artista recita, infatti, una litania pesantissima sui cambiamenti cui è andato incontro da quando è diventato una popstar. Le frustrazioni e l’insoddisfazione e le menate legate al successo; i finti amici e tutte quelle cose lì. Il problema è che una popstar non lo è ancora e questo senso di essere arrivato che trasmette praticamente in ogni brano, evidenziando i problemi di questa vita è assolutamente insopportabile. Tutto viene, poi, reso ancora più pesante dalla forzatissima voce nasale, tratto caratteristico ma portato all’eccesso. L’album si conclude con i 6 minuti (sei) di It’s Not the Same Anymore durante i quali, ancora, Alex ci propina la nostalgia dei tempi passati in un monologo che non permette nemmeno di empatizzare con lui, perché tutti i problemi e le insicurezze di cui tratta sono solo sue e quindi non riescono a coinvolgere l’ascoltatore che alla fine rimane convinto di ascoltare solo delle filastrocche.

È un po’ come la persona molto bella e interessante che ti sei portato a letto e che, il giorno dopo, corre a comprare un impianto stereo, un giradischi ed il vinile a tiratura limitata di Agaetis Byrjun di Sigur Rós, che però non ascolterà mai – solo perché la sera prima le hai tirato un pippone di mezzora sui tuoi gusti musicali. E questo, va da sé, non fa molta presa.