La storia dei Ra Ra Riot è quella che accomuna molte giovani band ed è quella che il musicista medio vorrebbe vivere: formi un gruppo con i tuoi amici universitari, butti giù un ep, vieni notato da chi di dovere e nel giro di un anno ti trovi con un contratto discografico in mano e a fare da spalla a nomi importanti – nello specifico qui parliamo di Art Brut, Editors, Tokyo Police Club, Los Campesinos! e Vampire Weekend.
I Ra Ra Riot hanno saputo cavalcare il momento producendo un ottimo esordio, The Rhumb Line, nel 2008, ricco di testi articolati, mai banali, e delle melodie godibili e varie, ma hanno anche un po’ deluso le aspettative nel secondo The Orchard, due anni più tardi, risultando a tratti noiosi e più distaccati nella resa emotiva, compiendo così un piccolo passo indietro; passo indietro evidentemente non fatale per la loro carriera che vede aggiungere il terzo tassello alla discografia proprio in questo 2013: Beta Love.

Beta Love – registrato in Missisipi e prodotto da Dennis Herring (Modest Mouse, Wavves, Elvis Costello) – trae ispirazione – per citare il gruppo – dai romanzi cyberpunk di William Gibbson e dalle riflessioni futuriste di Ray Kurzweil sulla singolarità tecnologica e il transumanesimo”. Il cyberpunk e il futurismo però, non traspaiono solamente dal titolo dell’album e dai testi, ma, forse complice la dipartita della violoncellista e cantante Alexandra Lawn, vengono sfrontatamente evidenziati dalla componente musicale che vede l’oscuramento delle chitarre e l’ascesa di tastiere, drum-machine e contaminazioni elettroniche: più che una svolta un vero e proprio testacoda rispetto agli scorsi lavori. L’approccio spiazza di certo, l’espressione altpop e indierock degli esordi è abbandonata a favore di un mood danzereccio infarcito di episodi electro, più o meno marcati, che rimandano alla mente Passion Pit ed MGMT su tutti.
La triade introduttiva è la maggiore artefice dell’estraniamento iniziale: Dance With Me, Binary Mind, Beta Love si costruiscono su synth carichi di filtri, un falsetto à-la Angelakos, powerchords artificiali e drum-machine; l’effetto ottenuto non è di certo memorabile, ma tutto sommato piacevole e godibile nella sua anonimità. Il fatto è che troppe tracce dell’album sono pressoché indistinguibili dalle sopra citate.
Le uniche a virare un po’ dal trend spensierato/divertente/a-lungo-andare-noioso sono What I Do For You, pezzo privo di alcun senso e inascoltabile con un basso martellante del tutto fuori luogo, la ballata Wilderness (fa schifo) e le più tranquille Is It Too Much e When I Dream, il miglior brano di tutto il disco, che ricalcano un po’ il passato e vanno a ripescare la malinconia dei giorni ormai lontani.

Questa svolta synthpop lascia trasparire la non dimestichezza del gruppo con il genere, sfociando troppo spesso in una postproduzione esagerata (l’apice sono le chitarre di That Much), con un uso smodato di autotune ed effetti sintetici che in troppi passaggi abbracciano la cacofonia.
Beta Love contiene un paio di tracce che potrebbero andar bene all’inizio di un djset, per convincere la gente ad alzare il culo dai divanetti, ma al di là di questo non resta proprio niente. Gli episodi che meglio funzionano sono quelli che prendono spunto dagli album precedenti, quindi ragazzi, imbracciate di nuovo le chitarre che è meglio per tutti.

Reccomended Track: When I Dream