Per un po’ ho fatto fatica a pensare ai Public Service Broadcasting come un gruppo. Sarà il nome altisonante da emittente televisiva, il loro vivere fuori dal circuito delle label “giuste” e dell’hype, o la loro scarsa risonanza internazionale mentre a casa loro, in UK, spopolano. Fatto sta che solo con il loro secondo lavoro hanno attirato la mia attenzione per davvero.

I Public Service Broadcasting sono un duo inglese composto da Willgoose (chitarra, banjo, samples, elettronica) e Wrigglesworth (batteria, piano, elettronica). Hanno deciso abbastanza presto di non cantare perché non ne sono capaci; utilizzano invece per la linea vocale registrazioni e sample dei Public Information Films – cortometraggi commissionati dal governo inglese a scopo informativo –, dei telegiornali, documentari, di materiali di propaganda, e ci ricamano intorno musica.

The Race for Space è il secondo disco dei PSB. Se c’è una cosa una che si può rimpiangere del periodo della guerra fredda è quella parte della rivalità tra i due blocchi che riguardava la corsa allo spazio. Le due enormi superpotenze che si sfidavano alla colonizzazione di un luogo assolutamente incolonizzabile, senza armi, in una sorta di gara a chi arriva più in alto, un atletismo futurista ed insieme romantico ed elegante verso lo sconosciuto. Era, anche lì, tutto per vedere chi ce l’aveva più grande, ovvio, ma con le astronavi e le tute spaziali. Mica male.

Tutto questo turbinio di sensazioni e influenze è richiamato dalle voci di allora, registrate nei materiali d’archivio che i PSB tirano fuori. Non solo rumori onomatopeici come il fuoco richiamato dal rumore bianco di Fire In The Cockpit che ricorda il disastro dell’Apollo 1, ma tutta una serie di suoni che rimandano ad un immaginario comprensibile da noi metaviaggiatori spaziali da Super Quark, che non abbiamo vissuto nessuno di questi eventi in prima persona; il nostro spazio è formato da questo: comunicati, voci rapide e sicure nell’etere, le musichette dei broadcast televisivi, il suono identificabile subito come quello dello Sputnik, i conti alla rovescia, “Houston“.

Il romanticismo nostalgico di questo disco non sta solo nel tema generale: è un disco romantico anche per la sua programmaticità. Infatti ogni canzone è pensata a proposito di un certo evento nella storia dell’esplorazione spaziale: dal primo lancio alla prima camminata, alla prima donna, fino all’ultima missione della serie Apollo – l’ultima vera fuga dall’orbita terrestre.

Musicalmente si può dire che si tratta di un post-rock leggermente virato al pop, con beat elettronici tanto per gradire, ma il paradigma cambia a seconda del pezzo. Il disco si apre sul discorso di Kennedy (The Race for Space) che lancia la corsa allo spazio – quella vera e quella del disco –, mentre sotto si sentono dei cori quasi religiosi, da evento solenne; a quel personaggio decisamente curioso di Gagarin i due inglesi dedicano una traccia tutta prog e funk, che si chiama appunto Gagarin; al primo lancio nello spazio dello Sputnik dedicano una traccia che si muove da una techno minimale per poi riempirsi in un crescendo di sintetizzatori e colpi di batteria reale mentre una voce ripete “all mankind“. È difficile poi non emozionarsi ascoltando il silenzio in The Other Side mentre gli astronauti girano intorno e vedono per la prima volta il lato oscuro della luna, nella traccia più davvero post-rock di tutto The Race for Space.

Se apprezzate le atmosfere dei Mogwai e dei Boards of Canada o siete dei nostalgici un po’ retrofuturisti e davvero vi manca tutta la poesia che orbitava (eheh) attorno alla conquista dello spazio, The Race for Space è un disco per voi. Per il resto di voi il secondo lavoro dei PSB avrà sicuramente minore interesse, ma è comunque un buon ascolto per il suo collage ben fatto di musica di gran classe e documenti storici. Poi, nella peggiore delle ipotesi, avrete ascoltato qualcosa che mischia il post-rock e Piero Angela. Mica male.

Traccia consigliata: Go!