Gran parte della scoperta musicale odierna avviene sulle bacheche Facebook, e chi scrive non ne è esclusa. Il lato interessante del meccanismo dell’hype sta proprio nell’ascoltare qualcosa che viene considerato bellissimo/bruttissimo e poi farsene un’idea personale. Succede che così scopro i Priests, quartetto punk di Washington D.C. all’attivo dal 2012 ma al loro album di debutto con Nothing Feels Natural, e quindi decido di parlarne. Prendete questa recensione come consiglio per l’ascolto.

In un decennio in cui il punk preferisce ripiegarsi sul personale ed in cui la voce radicale è quella del rap e dell’hip hop, i Priests pubblicano un album che riesce ad essere sia musicalmente innovativo che totalmente, rabbiosamente punk: Nothing Feels Natural è un punk rimescolato con jazz, post-punk, funky, dream pop, ma è anche una critica aspra, una decostruzione ben argomentata della società capitalistica, patriarcale ed alienante che rincorre il progresso inciampando su sé stessa, sulla quale la frontwoman Katie Alice Greer sputa piuttosto che pontificare.

Aprire il disco con una bomba a mano è proprio una cosa punk da fare, ed un brano di apertura così potente non lo si sentiva da The Woods delle Sleater-Kinney: Appropriate potrebbe essere la The Fox degli anni ’10, dimostrando da subito il debito dei Priests nei confronti del movimento riot grrrl e soprattutto quello di Greer verso la potenza vocale di Corin Tucker. Dal tripudio di stampo jazz ci si sposta in territori rockabilly (JJ) e post-punk (Leila 20) mantenendo ritmi serrati nella prima parte del disco; ci sono poi i Joy Division di No Love Lost nello spoken word di No Big Bang, il manifesto iperrealista del disco:

All of the science and evolution and progress
I mean sure, it looks good from a distance but when you’re really inside of it you realize it’s fucking terrifying
[…]
Suddenly I realize the rocket is just a prison
A small contained space with no real food, no companionship, no time passing, no gravity
Just the weight of my own insignificance, my foolishness, and my hubris thrust into the glaring light that is the sun but much much closer than it was before, and all I want is to die

Nella seconda parte del lavoro è il basso di Taylor Mullitz a dettare legge, soprattutto nel groove dei due brani conclusivi, Puff e Suck; ad allentare il tiro ci pensa invece la title-track, in cui alla chitarra sembra esserci Zachary Cole Smith – un bel pezzo che però risulta leggermente insipido di fronte alla veemenza del resto, soprattutto se seguito da una dichiarazione di intenti come “Come on nothing / come on surface meaning / come on cash grab / safety masturbating” (Pink White House).

I Priests non hanno mezzi termini: onesti e sfacciati, fanno il punk con la sicurezza di chi ha fatto la guerra e usano le parole con l’esasperazione di chi non ha niente da perdere ma continua a segnalare l’imminente catastrofe per difenderci dalla quale, nei tempi bui che ci si prospettano davanti, forse ci servirà di nuovo il punk.

Tracce consigliate: Appropriate, Pink White House