Patti Smith me la ricordo giovane cha salta da un lato all’altro della stanza ballando sgraziatamente e coi capelli negli occhi al braccio con Mapplethorpe in una New York che era la grigia città per eccellenza dei locali sotto i vicoli fra la quinta e qualche altra strada.
Questo è quanto, dire che oggi Patti Smith ha sessantacinque anni e ha pubblicato un nuovo cd non farebbe altro che confermare questa mia immagine. Tranne per il fatto che Robert Mapplethorpe non c’è più, e non c’è più neanche quella New York dei vicoli grigi intrisi di depravazione post-adolescenziale tipica di ragazzi usciti da locali tosti tipo il CBGB, che non c’è più neanche quello. E Patti Smith invece c’è.
Non immaginatevi chissà quale disco, Banga è esattamente come me lo immaginavo, forse un po’ più pensato del solito, più ragionato, meno ballerino di una “people have the power” cantata storta, ma comunque un disco di Patti Smith, con le sue stesure, i suoi tempi. Appare chiaro che Patti Smith nuota nella piena consapevolezza di non poter più esser una lanciatrice di nuove idee; ci parla come se avesse qualcosa da dirci, un pensiero nuovo forse, un sentimento inespresso in tutti questi anni di assenza discografica cantato alla vecchia maniera così da poter essere riconosciuto, e lo vediamo rotolarsi fra citazioni di libri, cultura domestica (Banga è il cane de “il maestro e margherita”), e cose sue che non ho ancora afferrato. Così a parole si scopre che gran parte delle canzoni sono dedicate a personaggi come Amy Winehouse o Johnny Deep in una sorta d’inno che sembra tanto “salutiamoci prima che io muoia se non vi dispiace”, poi vabbè Amy è già morta ma questa è un’altra storia… Banga è un disco intimo ricco di parole, musicalmente passato, destinato a perdersi in questa boria di musica del secolo nostro; Non è un disco di oggi non è un disco di ieri. Sempre meglio dei duetti di Lou Reed.