Il pregio della techno di inizio decennio, con portabandiera la scena berlinese, è quello di trasmettere su un supporto fisico delle esperienze sensoriali, delle matrici di suono studiate da pentagramma che vanno a modificare approcci, quantità di collaborazioni e destinazione d’uso. La musica è il prodotto sia di un lavoro tematico, che approfitta delle contaminazioni con cui il dj si confronta modificandone influenze e sensibilità , che di un lavoro fisico, in cui le relazioni con gli esponenti di altre sonorità permettono a geni del male come Pantha du Prince di disegnare paesaggi devoti alla musica classica, alle opere mastodontiche di John Cage, e alle ricerche spaziali dell’elettronica nel dopoguerra.

Il nostro Hendrik Weber si trovava ad Oslo quando la sua attenzione si è soffermata sulle polifonie imprevedibili del carillon di campane del municipio locale. Da lì è nato l’interesse per questo strumento millenario (dal moradico peso di tre tonnellate) e la collaborazione con The Bell Laboratory (nome emblematico viste le collaborazioni postguerra della Bell Labs con la NASA) , un ensamble di musicisti che oltre al carillon (composto da 50 campane bronzee manovrate dal norvegese Vegar Sandholt), creano combinazioni d’impatto con campane tubolari, marimba, xilofono e percussioni. Il risultato è meno meccanico di quanto si potrebbe prevedere. Lo sarebbe stato se Moritz von Osvald risultasse parte di questo gruppo. Le cinque tracce strumentali di Elements of Light semplicemente ti rendono la vita più semplice. Ti allacciano le cinture e ti proiettano nella dimensione musicale che si raggiunge sovrapponendo l’intelletto musicale classicista del tedesco alle geometrie spaziali dei suoni del Laboratorio.

L’esperienza è il quid che emerge nell’opera: viene narrata una storia dipinta del giallo ottone delle campane, continuamente riprese in festa o in lutto, che creano un immaginario quasi campestre entrando nelle memorie di piccoli villaggi tenebrosi distanti chilometri, con percorsi tortuosi, forse fin troppo, rendendo il suono ancor più utopico e borghese, ma comunque fedele ai quattro quarti.

La stratificazione digitale di texture entra nel vivo nelle frazioni in cui il nostro spinge l’acceleratore, facendo emergere la sua sonic house passionale in Particle, il primo vero scontro tra i due mondi, la cui formula viene ripetuta in Spectral Split, memorabile per la sua componente armonica.

Stiamo parlando di un prototipo, di cui vale la pena ascoltare e coglierne i dettagli. Difficile però immaginarsi un sequel della storia qui raccontata. Spero che questo spingerà Weber a non soffermarsi troppo sull’aspetto concettuale della sua musica, ma a togliersi di dosso gli effetti di Black Noise, che risuonano continuamente come degli eco.
Sicuramente lo farà con una nuova sfida.

Tracce consigliate: Particle, Spectral Split.