Anno 2018. La tecnologia ha ormai preso il sopravvento. Il senso di solitudine del singolo cresce in maniera direttamente proporzionale all’intorpidimento cerebrale delle sempre più indistinte e uniformate “masse” – termine che i mass-media adorano; ironico, no? Il futuro divora tutto mentre siamo intenti a guardare altro, proprio come mostra l’eloquente copertina di Age Of, nono album di Oneohtrix Point Never.

In un percorso artistico che lo ha portato ad essere uno dei produttori di spicco di un certo tipo di elettronica avanguardista (ma anche di un certo tipo di pop), Daniel Lopatin ha sondato a fondo il rapporto uomo-macchina, singolo-società, presente-futuro, sempre di pari passo con l’evoluzione temporalmente contestuale alla composizione. Questo la ha avvicinato sempre più ad una inquietudine viscerale, lo stato d’animo ormai più diffuso nell’essere umano del 2018. Dati gli argomenti, sarebbe stato semplice scivolare in stucchevoli ragioni di pancia, ma l’oculata penna di Lopatin ha sempre raccontato un’angoscia vera, generata da situazioni, e suoni ovviamente, altamente verosimili. È banale, certo, ma potremmo dire che la musica di OPN sia l’equivalente sonoro di Black Mirror, capace di angosciare proprio perché, pur nel suo essere estremo, non si discosta poi tanto dal vissuto quotidiano e da distopiche realtà sempre in potenza. Sarebbe sbagliato, comunque, parlare di concept album. Come sempre nella carriera di Lopatin, e forse questa volta più che mai, viene rigettata l’idea del singolo concetto come nucleo generativo dell’opera tutta, preferendo a questo approccio standard un fagocitare onnivoro, figlio del bombardamento di input cognitivi a cui siamo esposti ogni qual volta ci interfacciamo con il mondo reale e, ancor di più, virtuale.

Age Of nella sua totalità e le tracce stesse prese singolarmente sono la messa in musica di uno scrolling compulsivo, un information overload, una schizofrenica astrazione dal mondo fisico, Internet addiction disorder alla massima potenza. Su dolci ballate si posano voci aliene (Babylon, Black Snow, The Station), clavicembali barocchi incontrano droni rumorosamente digitali (Age Of), l’ambient si permea di glitch (Last Known Image Of A Song); magnifiche rincorse verso l’inferno creano un senso di impotenza e immobilità (We’ll Take It) e voli celesti vengono squarciati da grida demoniache (Same), una felicità disneyana è velata di una certa ansia latente (Toys 2). Tutt’intorno vi sono arpeggiatori e cambi di marcia repentini, minimalismo stuprato sino a divenire massimalismo, veicolando l’accelerazione di una dissonante musica popolare. Age Of è, infatti e nonostante tutto, accessibile nella sua brutale ambizione, è un ossimoro continuo arricchito di importanti collaborazioni che ben si accostano a questa ambivalenza di artisticità e fruibilità: James Blake, Anohni, Prurient, Kelsey Lu.

Age Of è un disco altamente visivo, con una fortissima componente evocativa. È il fiorire di una civiltà di cyborg pieni di insicurezze. È un artificiale occhio clinico e cinico che ti guarda dentro senza sentimento, senza pietà, compassione né tanto meno empatia. Proprio qui sta il paradosso e, in senso lato, l’arte: l’assenza di emozioni finisce per emozionare, a smuovere l’ascoltatore verso delle domande, verso un rapporto di causa-effetto generato in origine da una ricerca sonora, che genera ricerca interiore, che genera ricerca sociale, in un loop infinito. Siamo giunti a un punto in cui è sbagliato considerare questa musica “futurista” o “accelerazionista”, questa è la musica del presente: della digital renaissance non restano che le rovine e noi ci siamo sotto, intrappolati.

Now I know why you think we’re in Babylon
(Help me)
Now I know why you can’t leave this Babylon

Tracce consigliate: We’ll Take It, SameToys 2