La rassegnazione è il senso ultimo di Ghosteen. “Everybody’s losing someone”, pronuncia con la gola quasi chiusa, Nick Cave, in Hollywood, ultimo brano del disco e scioglimento del sogno. La rassegnazione di una perdita estrema; la rassegnazione che non è possibile superare quel dolore, e forse neanche conviverci, “It’s a long way to find peace of mind, peace of mind”. Rassegnarsi che alla fine perdere un figlio è un avvenimento possibile, un qualcosa che può accadere e che accade a chiunque. Ma a che serve pensarci? A che serve cercare sollievo in una parabola buddhista su una linea di basso tribale? A niente, semplicemente. Nessun conforto. Come i cavalli incendiari di Bright Horses, meravigliosi animali luccicanti, simboli galoppanti di speranza, che si rivelano essere, al contrario, delle mere illusioni (“And horses are just horses”).

Il percorso di Ghosteen è fatto proprio così: di costruzioni e distruzioni. Costruzioni sottilissime e trasparenti, fortemente simboliche, come quei dettagli tipo la “room 33” citata in Night Raid, o come tutte le altre incursioni provenienti dal quotidiano dell’autore: un modo per evocare in tutta la sua semplicità una vita ormai spezzata, attraverso il ricordo di tutti i giorni. Dal quotidiano ci si catapulta però anche altrove, in lidi del tutto immaginifici, in un terreno simile a quello della copertina: un paesaggio pre raffaelita, in cui le incursioni del magico sono possibili tra le trame ambigue, confuse e prive di confini dell’immaginazione nutrita dal dolore. È qui che trova palcoscenico l’evocazione forse più commovente dell’album: “A spiral of children”, la chiama Cave; un turbine di bambini che ascende verso il sole, verso l’invisibile e forse verso l’indicibile. Non resta dunque che avvertire vicinanza guardando in alto, al sole appunto, alle stelle, al cielo. “I am beside you”, “I’m waiting for you”, prega in tutto il disco Nick Cave, si sforza di vedere ciò che ormai è invisibile: “A ghosteen dances in my hand”.

Con questo album, interamente nato dopo la morte del figlio, Nick Cave ha voluto demolire le geometrie del dolore, ma non spazzarlo via. Un piano, il synth, sezioni elettroniche; il parlato, più che il cantato. Con queste asciuttissime ma essenziali soluzioni dei The Bad Seeds, Ghosteen ha instaurato un dialogo a senso unico con l’impossibile: dimenticare il dolore, paragonarlo al “niente”, ‘non è successo niente’. Ma come detto, c’è solo un senso in questo rapporto: l’impossibile

I try to forget to remember that nothing is something”.

Ghosteen è l’album con cui Nick Cave fa i conti con la morte del figlio Arthur, abbassando la voce. È un’opera di riflessione, il tentativo non di medicare una ferita insanabile, ma di coltivarla, di renderla, anziché purulenta, un terreno coltivabile di fiori, di verde; di renderla la base da cui proiettare sogni confortanti, ma con la consapevolezza che durano l’attimo di un respiro di sollievo, perché poi si infrangono, si dissolvono, e si torna a contare i giorni che mancano: “I’m just waiting now, form my time to come / And I’m just waiting now, for my place in the sun”, lo stesso sole verso cui era diretto il ‘vortice’ di bambini.

Non si sfugge. Nick Cave ci dice che non si fugge al dolore. Forse è questo messaggio, alla fine, ad essere il precipitato di Ghosteen, l’unica piccola pietra di razionale in un album in cui, invece, predominano, soprattutto nell’anima di chi ascolta, le visioni di figure inesistenti, sfuggenti e fantasmatiche, velate di malinconia e nostalgia. Un album talmente intimo e sofferto da diventare il suo perfetto opposto: un album universale e di tutti. Purtroppo, di tutti (e non a caso, inizia proprio con una canzone spostata apparentemente altrove, su Elvis Presley).

Tracce consigliate: Bright Horses, Sun Forest, Hollywood