Nick Cave è sicuramente uno degli intellettuali più completi che si siano mai prestati al rock; è anche uno dei pochi cantautori per i quali esser chiamato poeta non è del tutto un abuso del termine stesso. Dopo cinque anni dall’ultimo capitolo della sua discografia, Dig!!! Lazarus Dig!!! del 2008, il King Ink australiano è tornato a pubblicare un lavoro in studio con i Bad Seeds, dal titolo Push The Sky Away.

Il disco deve subito fare i conti, dopo la dipartita di Blixa Bargeld nell’ormai lontano 2003, con l’addio allo storico chitarrista Mick Harvey, già estromesso dal side-project Grinderman e con il ritorno, dopo molti anni, del chitarrista e bassista Barry Adamson: il sound che ne risulta, figlio oggi più che mai di Warren Ellis, è tutto incentrato sulla voce di Cave, come di consuetudine tenebrosa, profonda, ai limiti della recitazione.

L’opener We No Who U R è un brano a metà tra il trip-hop e gli U2 di fine millennio, arricchito da cori gospel e da un refrain lineare ma meraviglioso, che risalta sempre più, dopo ogni ascolto: “and we know who you are, and we know where you lived, and we know there’s no need to forgive”; questo pezzo è destinato a rimanere un classico della discografia del bardo di Melbourne. Meno incisiva è Wide Lovely Eyes, una melodia presa in prestito da Ring Of Fire di Johnny Cash e condita di nuovo in salsa U2, che però risulta fin troppo statica a causa di un arrangiamento minimale, quasi povero. Water’s Edge fa tornare in mente Murder Ballads del 1996: è un’intensa ed inquieta cavalcata in cui il piglio recitativo del cantante riesce ad esprimersi al meglio. Jubilee Street è un’altra fenomenale ballata, stavolta più vicina ai Velvet Underground di Heroin, che non lesina riferimenti al turbolento passato dell’artista, che come di consueto sceglie parole molto forti: “Avrei dovuto mettere in pratica quel che predicavo
In questi giorni vado in città, con il mio vestito e la mia cravatta
Con un feto al guinzaglio”.

Mermaids è più spiccatamente pop, con un testo di più difficile decifrazione (“I believe in God / I believe in mermaids too”); We Real Cool è una svolta nel percorso del disco: la teatralità del cantato di Cave poggia ora su un substrato composto da ferroso post-rock chitarristico e inquietanti pads. Siamo all’apice della tensione emotiva dell’album: Finishing Jubilee Street congiunge idealmente Jubilee Street (in modo più che mai esplicito ed intertestuale: “I’ve just finished writing Jubilee Street…”) e Higgs Boson Blues, brano in cui il cantautore è più che mai alle prese con la modernità (“Hannah Montana does the African Savannah / As the simulated rainy season begins”), ma anche con il suo caro vecchio blues (“I see Robert Johnson / With a ten dollar guitar strapped to his back / Lookin’ for a tune”), regalandoci anche versi molto intensi ed ironici (“Have you ever heard about the Higgs Boson blues / I’m goin’ down to Geneva baby, gonna teach it to you”).

Il percorso si conclude con la title-track, un’oscura cantilena che lascia calare il sipario su questo disco, come una buonanotte sussurrata all’orecchio di un bambino.

L’ultima fatica discografica dei Semi Cattivi è difficile da giudicare: se dal punto di vista musicale l’album, escluse alcune perle, zoppica un po’, la forza delle parole del bardo australiano è intatta; Push The Sky Away è un disco di passaggio ma interessante, nella speranza che possa essere il giusto preludio ad un futuro, ennesimo capolavoro firmato King Ink.

Tracce consigliate: We No Who U R, Jubilee Street.