Probabilmente non ricorderemo gli anni ‘10 per le novità tanto quanto per i ritorni. Anche se quello di oggi non sembra uno spartiacque paragonabile a quello con cui ebbe inizio l’epoca post Ian Curtis, l’assenza di Peter Hook fa di Music Complete uno snodo da non sottovalutare nel comprendere il futuro che si delinea per il progetto New Order. Se tornano le tastiere di Gillian Gilbert e se ne va il basso di Hook, tra le due facce speculari e complementari della storica formazione inglese – attitudine punk e desideri dal ritmo dance, in cerca di convivenza sin da Power, Corruption and Lies – è facile intuire che stavolta una delle due avrà la meglio sull’altra, come quella volta in cui senza la Gilbert risultò quasi necessario sospendere le sperimentazioni sintetiche e consacrare il nuovo capitolo al rock (Get Ready, 2001).
Music Complete si presenta con un artwork a tinte fluo a metà tra minimalismo e street-art, e un titolo che è inevitabile supporre ispirato da quella musique concrète antesignana dell’ampio ventaglio di possibilità sonore attualmente identificato come elettronica. A voler stimolare le sinapsi di ogni tipo, si finisce per creare aspettative altissime.
Siamo di fronte a un synth pop di ottima fattura, sfavillante nelle peripezie sintetiche che unite all’abilità di Tom Chapman (di gran lunga superiore a quella esibita nel side project di Sumner, Bad Lieutenant) riescono persino ad eclissare il ricordo delle linee di basso imponenti di Hook. L’effetto però non dura molto più di quello dell’ascolto stesso: se da un lato i ritmi frenetici e il glam scintillante rivestono le superfici sonore distraendole dalle tentazioni oscure, dall’altro sembrano evitare la consueta sfida dell’inventarsi una nuova forma di coesistenza delle due anime dei New Order semplicemente glissando sull’argomento, rinunciando proprio a quella peculiarità compositiva che ne ha prodotto i capitoli memorabili.
Allo stesso modo, gli episodi più riusciti di Music Complete sono quelli in cui i mancuniani mostrano di sapersi muovere ancora nel loro caratteristico crossover, come in Singularity o nella tregua a base di corde new wave di Academic . In altri casi la scorciatoia è compiacersi e far sfoggio di maestria in ciò che loro stessi hanno inventato, come in Plastic, che anela al techno-pop maestoso di True Faith. Il grosso del disco suona perciò catchy quanto effimero. Sono i New Order di Technique: acid house altisonante dalla produzione curata, unita a un mood scanzonato a cui si fatica a credere. Nonostante i suoi cinque minuti abbondanti, Restless è quanto di più easy e radiofonico avrebbero potuto produrre dopo Regret. Gli intermezzi spoken in italiano di Tutti Frutti sono parentesi pacchiane (e anche un po’ imbarazzanti) che caricano inutilmente un brano di EDM già squillante, con Elly Jackson alias La Roux ad addolcire i refrain. Molti gli ospiti, in produzione e tra i performer. Un voler tornare in grande spolvero o un esorcismo contro la paura di non riuscire a farlo? Preferiamo tenerci il dubbio, anche se il featuring di Brandon Flowers fa sì che Superheated suoni preoccupantemente troppo The Killers.
Se è vero che i New Order degli anni ‘10 non ci sorprendono, è pur vero che ci deliziano sfoggiando un album da cui il synth pop di oggi ha solo da imparare, e se la musica avanza con la testa rivolta all’indietro non ci resta che goderci la longevità di chi ha inventato ciò che gli altri si affannano a imitare.
Tracce consigliate: Singularity