Sono così incazzato che metterò gif dei cani più belli del mondo in tutta la recensione, giusto per calmarmi.
Ok, molto meglio.
Non so davvero da dove cominciare, per parlarvi di questo disco. Potreste dire che recensire male Miley Cyrus nel 2020 è troppo facile e in qualsiasi alto caso vi avrei anche dato ragione; ma, dopo aver ascoltato Plastic Hearts, credo sia necessario parlarne, perché ci troviamo davanti a qualcosa che va semplicemente oltre.
Se vi dicessi che, in paragone, Party In The USA e Wrecking Ball sembrano pezzi degli LCD Soundsystem, mi credereste? Se vi dicessi che ogni traccia di Plastic Hearts è in grado di generare un fastidio paragonabile a una ragade, mi credereste? Fidatevi di me, mentre vi parlo della mezz’ora più brutta che ho passato durante la settimana scorsa, così che possiate evitare di farlo anche voi.
Iniziamo a parlare di come suona il disco – che è già un’impresa. In appena dodici tracce, Miley riesce a suonare come una parodia non voluta di Avril Lavigne, Nickelback, Aerosmith, Bon Jovi, Goo Goo Dolls e pure un po’ di se stessa. Schitarrate prevedibili dal primo attacco, basi elettroniche uscite da un cassetto di demo dei Generation X (e proprio il caro Billy Idol fa una capatina in Night Crawling, scimmiottamento brutto di Rebel Yell), ritornelli copiati pari pari da pezzi della storia del pop (Prisoners, che vede l’improbabile featuring di Dua Lipa, è uguale identica a Physical di Olivia Newton-John). Sì, avete letto bene, la Cyrus riesce a far suonare male pure la nostra amata Dua nel suo anno migliore. Che tragedia, che tristezza. Che amarezza.
Fastidio, sì, perché Plastic Hearts è un ritorno nostalgico a un tipo di musica che speravamo tutti si fosse ormai estinta. Anche i Nickelback hanno imparato a fare schifo in altro modo, e dai. Disagio e fastidio si avvertono anche se si ascolta cosa sta cantando con tono spaccone la nostra Miley, che può essere riassunto con “sono la più figa, io non vi piaccio ma non mi interessa, spacco tutto”. Posso dirlo? Che due cogl*oni. Pezzi come Golden G String e Hate Me sembrano scritte su un diario di una ragazzina delle medie. E forse i ragazzini sarebbero proprio il target pensato dai produttori della RCA per questo disco, che invece suona talmente vecchio che il suo ascoltatore ideale è una chimera impossibile, a metà tra un cinquantenne innamorato del vero ruoooock e una bambina alle prese con i primi tormenti pre-adolescenziali. Da brividi.
In soldoni, Plastic Hearts non è solo un brutto disco, ma è proprio un dispiacere in un anno pieno di musica grandiosa. Probabilmente questa recensione è inutile come il disco di cui si parla, ma idealmente serve un duplice scopo: mi ha risparmiato di insultare qualche santo e vi ha risparmiato di ascoltare quello che per me è il disco più irritante dell’anno. Almeno questo.
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