Prosegue la saga di Mikal Cronin, che battezza i suoi album come fossero smartphone. Giunti al terzo atto, quasi si fatica a ricordare da dove viene il ragazzo. Con il suo esordio solista, il bassista alle spalle di Ty Segall cavalca l’onda del garage rock su cui si è fatto le ossa, ma con MCII, complice anche mamma Merge (?), la virata è già netta, e distanza di due anni ora MCIII spinge a fondo sul pedale del pop e dichiara estinta ogni avversione di Cronin per la melodia.

Cronin ci piace perchè confuta la necessità di coesistere di tristezza e introspezione. Sin dall’inizio del suo percorso da cantautore la tesi è chiara: non c’è alcun bisogno di rinunciare ai ritmi sostenuti per creare intimità. D’altronde i Belle and Sebastian li amiamo da sempre per lo stesso motivo.
Se all’epoca però i devoti di Segall seguirono senza esitazione il Mikal songwriter fino ad allora nascosto dietro ai fuzz, con quel debutto omonimo che calcava fedele i passi del suo mentore, ora gli stessi devono rassegnarsi al fatto che la strada intrapresa è un’altra.
Impeccabile negli arrangiamenti, MCIII fluisce ricco e curato, in un ascolto in cui la conduzione è affidata alle frequenti incursioni orchestrali molto più che alle distorsioni del passato. Turn Around inaugura il disco in un profluvio di archi, che il cantato di Cronin rincorre concedendosi persino qualche momento di ostentazione delle proprie capacità vocali. Il profumo di West Coast arriva in seconda battuta, tra i cori di Made My Mind Up, e cresce coi beat di Say, trascinante saggio di power pop, per poi però sfumare nelle ballad che concludono la prima parte dell’album.
Le successive sei tracce costituiscono un mini concept album incastonato nel disco vero e proprio, i cui temi si tuffano più a fondo nel personale del cantautore mantenendo però intatto il mood scanzonato e in alcuni episodi tornando a confidare nell’energia delle chitarre. L’impasto sonoro di ii) Gold giunge un po’ inaspettato a ricordarci perchè il predecessore di MCIII ci era piaciuto così tanto, ma è con i) Alone che i contorni di quel vago disappunto avvertito fino ad allora si fanno finalmente più nitidi: tra i fiati lievi e l’esplosione di percussioni sul finire, nonostante si tratti di brani dall’essenza assai diversa, sembra di distiguere la stessa struttura della brillante Piano Mantra, il gioiellino che chiude MCII, una nenia che a un tratto deflagra in distorsioni penetranti. Il problema però sta nel fatto che il nuovo Mikal è sovraccarico: in preda ad una specie di horror vacui finisce per eccedere in dettagli e non riuscire a vivere degli stessi contrasti sbavati e affascinanti grazie a cui in MCII collidono origini garage punk, surfate di rock alla Beach Boys, spirito grunge e ambizioni pop.
L’inappuntabile MCIII è maturo e meritevole di molti ascolti, ma estro e spontaneità ne vengono fuori penalizzati e la perfezione è una cosa a cui difficilmente ci si affeziona.

Tracce consigliate: ii) Gold