Nel 2012 il rap italiano era ormai sdoganato in lungo e in largo, da tempo. Nel 2012 PES dei Club Dogo invadeva le radio e le tv. Il rap italiano toccava uno dei suoi punti più bassi. In contrasto con l’andamento estivo/zarro di quel singolo tanto imbarazzante quanto nefasto per i timpani dei più, usciva anche Disco Inverno, debut album di Mecna. E il contrasto tra i due non stava solo nella temperatura, ma anche e soprattutto nei temi: a Corrado Grilli non interessava proporsi come uno che entra nei locali e spacca tutto, pieno di figa e di cash, ma quando mai; Disco Inverno era (è) un concentrato intimo di sensazioni, di sentimenti, di “io pensante”. E proprio per questo funzionava, perché nonostante i più dicessero “il rap italiano è morto”, Mecna (non era il solo e nemmeno oggi lo è, ma non è questo il luogo in cui dilungarsi) ci concedeva almeno l’appiglio del beneficio del dubbio. Poi i live, le collaborazioni, la tanto criticata pubblicità del gelato, il ritiro in Norvegia in vista del concepimento del nuovo disco (se volete saperne di più qui trovate l’intervista che abbiamo fatto a Corrado): Laska.
Dal nome, Laska suona gelido, ma già l’artwork lascia intravedere un cuore caldo. Con l’ascolto ci si accorge ben presto che il freddo non è quello atmosferico, bensì quello delle relazioni, di un intimo modo di vedere – e vivere – la vita.
I temi sono sempre personali, dalle stilettate alla scena italiana, da cui Mecna si chiama fuori, (Non dovrei essere qui) alla voglia di evasione (Taxi), passando per le storie d’amore finite (31/08, Non ci sei più e la bellissima Pace) a quelle che mai cominceranno (Roar). La folta schiera di produttori fa il suo sporco lavoro e non si perde in divagazioni personali, riuscendo a creare tra le tracce un filo conduttore perfettamente unito ai testi, facendo profumare il tutto di malinconia e rabbia, di onesto confronto e confessione: Mecna si muove su territori altamente contemporanei, che giovano all’ascolto e alla freschezza del prodotto. Il comparto musicale di Laska viaggia (eccezion fatta per la conclusiva Favole, un po’ troppo trap) tra post-dubstep e R&B con divagazioni nusoul, tra autotune, vocoder, James Blake e tutto ciò che faceva di contorno alla voce di Frank Ocean in Channel Orange. Nei testi però, talvolta, il Nostro si perde in qualche “mecnata“: apice penso sia “che aspetti? Tirala fuori una birra o facciamo che sudi un casino e incomincio a berti?” (whaaaat?!). Il tema di Male di me poi vorrebbe moltitudini di persone a parlare male del povero Corrado manco fosse Hitler, e Faresti con me è un po’ della serie “smettila di fare la maiala in giro e mettiti con me che si fa il sesso con l’amore”, insomma la canzone che le pischelle vorrebbero vedersi dedicata dal loro fidanzatino tamarro con le stelline tatuate. Ma tutto sommato niente che non possa esser mandato giù o che scalfisca tanto negativamente il risultato del lavoro. E nota di merito per l’implicita menzione a Kendrick Lamar: “ci vedi e gridi alleluia, Halle Berry”.
Certo i duri e puri dell’hiphop avranno sempre da ridire verso lo stile di Mecna, troppo moderno, troppo cantato, troppo influenzato da sonorità contemporanee che con l’hiphop hanno poco a che fare. Io, nel mio piccolo, col rap ci sono cresciuto e credo fermamente che la musica del buon Corrado non sia per nulla sacrilega e anzi possa rappresentare il giusto compromesso tra modernità e vecchia scuola, (perché dai, siamo anche nel 2015), nonché la giusta soglia da varcare per neofiti del genere.
I pezzi di Mecna funzionano, eccome, e soprattutto per il suo stile personale che si discosta dal movimento, dall’andazzo e dai temi generali; proprio come era accaduto con Gemello a Roma ai tempi d’oro del Truceklan, e come era accaduto nel 2012 con Disco Inverno.
Dunque anche oggi, come tre anni fa, possiamo dire che no, il rap italiano non è ancora morto.
Tracce consigliate: Pace, Non dovrei essere qui.