July di Marissa Nadler finisce in una triste e laconica affermazione: “Forse è il tempo ma nel mio cuore non ho niente”. Fuori piove.

Se me lo consentite, vorrei spendere ora un paio di parole su quello che è il dream pop; perché è qui che poniamo questo disco: in mezzo ai sogni che ci avete in testa – che prima o poi abbandonerà il collo per certo, data la notevole mole di dischi che si va accumulando.
Ho come l’impressione che la maggior parte di noi tutti porti in cuore l’idea che questo fenomeno del dream pop sia, per così dire, una sorta di virus passeggero, di fuorviante modus operandi privo di effettivi contatti col mondo che c’è fuori, quello reale.
Sì, vero in parte.
Ho letto di recente un articolo che definisce la nostra generazione, la generazione Y a detta dei tecnici, come triste e frustrata; effetto, questo, di grosse aspettative non appagate, che abbiamo generato, in seguito al nostro parto, come per superare i risultati ottenuti dai nostri genitori, così da poterci (idealmente) collocare in una posizione speciale, di tutto rispetto. Sì, giusto, tutto vero, parziale però. Cos’è che ci spinge, veramente, a creare aspettative così irrealizzabili? E cos’è che ci rende, veramente, così ambiziosi? Sì certo come no, forse un po’ i nostri genitori che, autodichiarandosi prima di tutto una generazione sconfitta, ci spingono inconsciamente a far meglio di loro e, forse, anche un po’ a strafare. Ma non basta; la tecnologia è il vero humus fertilizzante, la diretta musa ispiratrice. La tecnologia predominante di una società definisce la società stessa – questo lo diceva Marshall Mcluhan, che a questo punto consiglio di andarvi a guardare. Credete che aver avuto in mano un computer o uno smartphone, cronologicamente prima dei nostri genitori, non abbia influenzato il nostro modo di ragionare?
Sì bene, arriviamo al punto.
Oggi, grazie a un’infinita mole di Social Network, viviamo costantemente connessi in parallelo a un’altra vita, quella virtuale. Che è nostra e ci appartiene esattamente allo stesso modo di quella reale, solo che, appunto, è virtuale. Ebbene, il dream pop non è altro che il corrispettivo omologo nella vita reale di un qualsiasi social network e, unicamente per questo, non può che riferirsi a un panorama di sogno, finzione e bugie.
Mi spiego meglio. Internet ha il pregio di poter estendere l’assimilazione di un’informazione a una comunità vastissima; molto più vasta di quanto per esempio un libro possa fare. I social network, allo stesso modo, estendono, a livello esponenziale, la nostra rete di relazioni andando a creare così un vero e proprio villaggio globale (direbbe sempre Mcluhan). Parlando fisiologicamente, si presuppone che l’utente metta in rete una sorta di suo corrispettivo virtuale, un suo avatar, che si basa su una sorta di patto di fiducia postulato col social network stesso (tanto che certi social network chiedono il “giorno del compleanno” per avere un ulteriore appiglio con la realtà). L’utente può, infatti, scegliere se far corrispondere interamente il suo profilo alla sua vita o decidere di omettere alcune parti, facendone risaltare altre, magari puramente inventate, tradendo quindi il patto iniziale; per non parlare poi dei profili fake e via discorrendo… Il punto è che questi comportamenti, per così dire, patologici, intesi proprio come fisiologie mancate, sono di fatto insanzionabili e di conseguenza liberi di esistere.
Ora, scendendo nel dettaglio, possiamo dire che il dream pop si basa su questi stessi comportamenti patologici, frutto di menzogne. Il dream pop non trae ispirazione dalla vita vissuta; la sogna. E qualsiasi sogno è lecito. Che sia chiaro: dire “profilo fake” o “dream pop” è assolutamente la stessa cosa, come anche una persona perennemente “online” e, insomma, un qualsiasi uso patologico di internet e dei suoi affiliati.

SCUSA MA MARISSA NADLER?
Marissa Nadler fa un disco dream pop ed è una sognatrice per eccellenza. Fondamentalmente chitarra e voce, il disco si sussegue fra riverberi e delicate melodie vocali, accompagnate spesso da cori, che ci trattengono per tutta la sua durata in questo ambiente sognante e privo di mura. Tra l’altro, a difesa della mia tesi, è interessante notare che l’aggettivo “dream” nella musica di Marissa Nadler, aldilà dei testi, non è altro che una questione di post-produzione, di “finzione”, quindi, in un certo senso. Le canzoni di per sé, non fanno altro che richiamare un certo cantautorato americano pre e post sessantotto che trova i suoi apici in personaggi come Joni Mitchell e via dicendo. Il disco, per quanto concerne il suo genere, è ok. Belle chitarre e belle voci.
Il punto è: smettetela di credere che il dream pop sia un fenomeno del 2k11, finchè esisteranno profili fake su facebook, il dream pop sarà tra di noi.

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