Gli anni passano per tutti, caro Reverendo. Sembrava, in un periodo a cavallo fra la fine degli anni 90 e l’inizio dei 2000, che l’industrial dovesse diventare l’ingrediente da aggiungere in tutte le salse, una musica prezzemolina. Per fortuna la moda si è spenta e di tutti quei gruppi che vivevano di chitarroni pesanti e distorsioni da acciaieria, ben pochi sono ancora vivi.
Gli stessi primi della classe nell’amalgamare le sensibilità del metallo fuso e il rock pesante, i Rammstein (geniale miscela dei mai troppo citati Laibach + KMFDM + geometrico dis-ordine prussiano + lanciafiamme sul palco) sono silenziosi da un bel pezzo.
Anche Marilyn Manson a modo suo era un primo della classe: nessuno quanto lui intimoriva le mamme e i papà dei piccoli poser goth-dark che in Manson avevano trovato una ragione per fare brutto alla coscienza dei propri genitori.
Ma come dicevo, gli anni passano per tutti. E basta solo guardare il look di questo nuovo album per capire che i tempi dei fantasiosi completini in lattice dal bizzarro sapore nazi-androgino sono alle nostre spalle. Più che il Reverendo ora si parla di un Pale Emperor: un po’ altisonante come nomina, ma ci si poteva attendere uno sfoggio di modestia?

L’arrivo nei negozi è preceduto da Third Day of a Seven Day Binge. E qui, in tanti, avranno alzato un sopracciglio. Lenta e monotona, è una blueseggiante (termine da prendere con le metaforiche pinze) narrazione di un amore maledetto. Il pubblico su Youtube s’è spaccato a metà, com’era praticamente ovvio.
Quasi che fosse prevista la vasta reazione di disapprovazione ecco arrivare come secondo singolo Deep Six: stavolta non c’è nulla di progredito rispetto al passato celebre del nostro, nè sotto l’aspetto testuale nè sotto quello musicale. Gli elementi nel calderone sono sempre quelli, un’aggressività prodotta e gonfiata al punto giusto, linee vocali che spaziano dal torbido mormorare agli urli, sfacciati riferimenti satanico-sessuali. Cupid Carries a Gun sceglie di nuovo una via vicina a Third Day…, più cadenzata dal punto di vista musicale (quindi meno noiosa) e più esasperata dal punto di vista vocale.
E queste in buona sostanza sono le coordinate che segue largamente The Pale Emperor: un country-blues post industriale e post moderno, elettrificato e greve nell’incedere, dove spesso l’accoppiata sezione ritmica & tastiere passa senza troppi riguardi davanti alla preminenza delle chitarre. Non dimentichiamo, e parlo seriamente, quello che diceva l’imprescindibile Richard Benson sul fu chitarrista del Manson, John Five, tutt’altro livello rispetto a quel che è venuto dopo.

C’è la buona (autobiografica?) The Mephistopheles of Los Angeles che pesca furbamente un riff di chitarra sul ritornello manifesto del paraculismo mansoniano. Lo stesso brano, le stesse suggestioni vanno a riemergere nello spudorato country marcio di Fated, Faithful, Fatal. Più di un brano si intreccia con altri, spunta di nuovo sotto altre vesti, si cita e autocita in nuove forme.
Non è tutto oro quello che luccica e compare nella tracklist qualche filler di troppo: se Odds of Even e Day 3 sono semplicemente piatte e mancano le idee, Killing Strangers mette in scena un vistoso errore di valutazione, ovvero l’inaugurare proprio con questa canzone l’album. Poco tiro, per un brano che vorrebbe ma non può. L’horrorifica Birds of Hell Awaiting a tratti sembra una parodia di se stessa, troppo piena di quegli elementi sonori degni della colonna sonora d’uno slasher di bassa macellazione, troppo caricaturale. Mancano quel sarcasmo nero e quell'(auto)ironia macabra che, fra titoli e testi, continuano a far sibilare la lingua biforcuta di un autore dalle parole spesso più taglienti di quanto non lo sia mai stata in realtà la sua musica.
Si conclude tutto con Fall of the House of Death, semicitazione di Poe ed episodio più in linea con gli stilemi della musica tradizionale dell’intero lotto.

Brian Warner alla soglia dei cinquant’anni continua a fare musica, alla faccia di chi lo voleva sparito dalla faccia della Terra esaurito il momento più propizio. Non poteva fare una capriola tale da iniziare con le cover vocal jazz in smoking ma altrettanto non poteva continuare a comportarsi da ragazzino per attirare ragazzini, ai quali oggi, peraltro, Manson e le sue provocazioni interessano ormai davvero poco.
Il nuovo Manson, a suo agio in queste vesti ormai già da un po’ di album a dire il vero, è stato abbastanza ripulito da non far vergognare i suoi fan non più adolescenti ma non troppo di modo da non perdere quello zoccolo duro. E in più questa volta ha introdotto nelle vene della sua musica qualcosa di inaspettato.
Considerazioni su evoluzione furbetta ed opportunismo a parte The Pale Emperor riesce a dire qualcosa di interessante. Fa sorridere scriverlo perché ha i contorni dell’improbabile ma c’è un sottobosco profondo e comune fra questo album e l’ultimo degli Iceage. E con questa nona prova il target non saranno soltanto i fan immancabili, della prima o seconda ora, ancora ligi al Verbo gotico da Wallmart del Reverendo; anzi forse costoro perfino storceranno il naso più e più volte, grideranno alla commercializzazione definitiva. Honi soit qui mal y pense!
Non c’è particolare genio, non ci sono attimi nei quali saltare sulla sedia in preda all’euforia; ma non c’è nemmeno la noia e la ripetitività compositive che mi aspettavo dopo l’ascolto di Deep Six, bombastica sì ma quanto amaro già sentito in quei cinque minuti.
Con l’avviso, come se a fine recensione ce ne fosse bisogno, che questo non è il solito album che ci si aspettava da Marilyn Manson, buon ascolto a tutti.

Traccia consigliata: The Mephistopheles of Los Angeles.