Come diceva il più compianto zio morto dei comics, lo zio Ben di Peter Parker, “da grandi poteri derivano grandi responsabilità”.
In termini discografici l’aver inciso un solo album nel 1970 contenente una manciata di canzoni (su tutte l’indimenticabile Dolphin, Hey, Who Really Cares? e Call of the River) il cui insieme rasentava la perfezione del folk psichedelico di quegli anni e non solo, e tornare quattro decadi dopo con del nuovo materiale, è fuori di dubbio avere su di sé una grande responsabilità.  Parallelograms per un viscido scherzo dei tempi o per un caso sfortunato non ricevette attenzioni particolari al momento dell’uscita e ottenne il meritato riconoscimento solo con la riscoperta musicale del folk anni ’70 molto tempo dopo.Questo immeritato silenzio non è invece destinato a The Soul of All Natural Things che come già sottolineato si porta dietro carichi di aspettative non indifferenti.
Sono passati 40 anni per la cantautrice e per la musica anche se, forse per caso o forse no, il mercato “alternativo” e non attuale è saturo di gruppi e cantanti folk oggi come allora. La qualità media, basta guardarsi intorno, lascia troppo spesso a desiderare, dichiarando nei fatti un biechissimo interesse non per la tradizione musicale ma per il guadagno economico derivante dal saltare sul carrozzone di turno.

The Soul… è aperto dalla titletrack, eterea come ricordavamo la Perhacs e quasi medievaleggiante, più europea che americana, come una Shirley Collins o Duncan Browne. La voce è cambiata, forse meno calda che un tempo ma avvolgente come se non fosse passato un giorno dalle registrazioni di Parallelograms. A metà canzone la prima sorpresa di questo ascolto: il ritmo cambia, i tamburelli si infilano sulla trama e la cullante nenia si trasforma per poche decine di secondi in un flamenco che poteva, in tutta onestà, essere evitato.
Gli arpeggi e il testo dolcissimo di Children e il ritmo sostenuto da River of God ci accompagnano con rinnovato piacere nel proseguire dell’album seguendo con successo un percorso classico e lineare, dove la Perhacs si dimostra ancora ottima interprete.
Prese singolarmente gran parte delle composizioni sono piccole gemme ricamate sulla sei corde anche se purtroppo capita, a metà lunghezza quella che è senza discussioni una mela marcia: Intensity, che dopo un inizio standard si movimenta fin troppo, assume connotati elettronici fino a diventare qualcosa di tremendamente simile a Enya. La prima cosa che mi è venuta in mente ascoltandola è stato di sperare che i Delerium e Intensity non si incontrino mai, salvo il volere ascoltare una Silence del 2014. Immunity ne è la canzone sorella e anche qui è meglio saltare quasi a piè pari.
Per fortuna si riapproda subito a lidi rassicuranti con Freely e il singolo Prism of Glass dotato di un appeal di nuovo medievale e tintinnante, scandito da vaghi echi di percussioni. Si chiude questa esperienza con la magnifica prova fornita da When Things Are True Again e le spoken words sull’ambient ecclesiastico di Song of the Planets.

The Soul of All Natural Things è un album spirituale, che oscilla tra sogno e tradizione, sempre ben ancorato ai capisaldi della musica che ha ispirato Linda Perhacs. Un ritorno che definire gradito è dire poco: competere con la freschezza di Parallelograms era forse impensabile e certe innovazioni faranno alzare più di un sopracciglio ma non per questo ci troviamo di fronte a un’operazione commerciale. In The Soul… c’è il sincero sfogo di un’artisticità rimasta sotterranea per quasi una vita.
Per chi non conosceva Linda Perhacs una bacchettata sulle dita e come compito a casa il previo ascolto della prima opera dell’autrice. Per chi non si è mai dimenticato delle atmosfere uniche di Dolphin, un gradito quanto inaspettato e onesto ritorno.

Tracce consigliate: Prism of Glass, Freely.