Negli ultimi due anni abbiamo ammirato i singoli, i video, li abbiamo salvati, congelati, ascoltati, riascoltati, approfonditi. Ma alla fine si tornava sempre lì, al mistero dietro l’autore. La domanda “chi è LIBERATO?” è diventata essa stessa, col tempo, LIBERATO. Si tratta di un fenomeno a forte trazione partenopea, così come lo è stata Elena Ferrante, che anche grazie ad un’ambigua esistenza ha conquistato milioni di lettori in tutto il mondo. Sembrerebbe che a Napoli, per creare, “basti” anche solo gettare un velo sopra – si pensi a ciò che si può ammirare a Sansevero.
LIBERATO ha giocato molto su questa possibilità: ha buttato un mantello sopra l’identità ed ecco, magia, come lui, anche la sua Napoli diventa velata. Mentre i media puntano tutto sullo svelare la città, sul denudarla e mostrare le sue crudezze e le sue oscenità, questo artista invece la riveste, la copre, dandone una testimonianza sui generis. Napoli per LIBERATO torna ad essere un racconto impressionista, offuscato, verace, emotivamente confuso: l’ambiente partenopeo diventa un teatro di sogni in cui trova terreno fertile l’altro racconto, quello non più inerente all’autore, ma prettamente riferito alla sua opera: il racconto sviluppato in undici brani ed altrettanti video; filmati che raccontano due “stagioni”, mentre le canzoni invece uniscono questi blocchi e ne connotano uno solo. Nei videoclip di Francesco Lettieri, infatti, c’è la prima stagione che va da Nove maggio alla doppietta Intostreet / Je te voglio bene assaje e c’è la cinquina di episodi di Capri Rendez-Vous, che ha accompagnato – e completato – l’album d’esordio di LIBERATO.
LIBERATO è un album molto dinamico, la cui riuscita non dipende solo dal valore squisitamente musicale. Si tratta di un’opera che si estende, si aggiorna, si completa con la sinergia di diversi elementi. Soprattutto artistici, ma anche legati ad altre sfere: hype, comunicazione, gestione del progetto, moda, lettura e coscienza della contemporaneità, dei modi in cui essa va affrontata e raccontata.
Sensualità e romanticismo, istinto e ragione, collera e inquietudine, tachicardia e poesia. Quello che troviamo in questo disco è principalmente una storia d’amore, il più intenso che può esserci, ovvero il primo vero amore, quello che dura il lampo di un momento e poi finisce, ma te lo porti dentro sotto forma di malinconia e confusione per il resto della vita, “na rosa e cient spin”. Quella confusione generata inizialmente da una incoerenza intima (Comme amma fatto a ce alluntanà?) , quell’odi et amo inspiegabile, una “bugia” raccontata e se stessi dentro la quale “pierd ‘o suonno e ‘a fantasia“.
Poi il sentimento si radicalizza e si passa ad un contrasto senza fine, un perenne rumore bianco: voler dimenticare ciò che questo amore è stato (Chell’ ch’è sta è stat / Nun serv cchiu a nient), ma al tempo stesso non permettere di farsi dimenticare (tema sparso ovunque, con l’apice in TU T’È SCURDAT’ ‘E ME, che non a caso conclude il disco e tutta la sua tensione emotiva).
Tanto fanno i testi, poetici e letterari, ma al tempo stesso frizzanti e innovativi; testi in cui la concretezza della lingua napoletana si mescola con l’inglese, il francese o con lo spagnolo da reggaeton, come in OI MARÌ.
Testi pieni zeppi di riferimenti alla storica tradizione della musica popolare / leggera napoletana (passaggi come Passann e spassan sott’ a stu’ balcon o semplici termini come sciantosa fanno subito venire in mente nomi come Sergio Bruni, Aurelio Fierro, Murolo).
Sono testi, ancora, che si sposano con il tema centrale dell’album, con l’idea di amore che tutto il disco canta, tra descrizioni di colpo di fulmine (‘Na notte sola basta pe’ se ‘nnammurà), sul maledirlo (Mmocc’ a chitemmuort / O’ juorn ca’ t’aggio vasat), sul dimenticarlo (Tutt’ o’ blocco nun ce voglij parlà), sul risolverlo (Ma mo nun chiagne cchiù / Te port’ sott’ ‘a luna), ma soprattutto sul rimpiangerlo (Quanto mi manchi nun può capì / Picceré, come back here).
Ci sono poi le produzioni, che si muovono in un campo d’azione dai limiti della tamarrata di GUAGLIÒ (figlia di Major Lazer e TNGHT) e NUNN’A VOGLIO ‘NCUNTRÀ (più vicina alle prime produzioni di SOPHIE) alle versioni praticamente quasi unplugged di GAIOLA e NIENTE, passando per la UK-garage dei Disclosure nei drop di ME STAJE APPENNENN’ AMÒ, la trap italiana di NOVE MAGGIO e tutto il mondo dei remix di Flume e Jamie XX in TU T’È SCURDAT’ ‘E ME. I nuovi cinque pezzi che hanno completato il disco non hanno cambiato niente, si sono mantenuti musicalmente sulla già altissima cifra stilistica del LIBERATO già noto. Se estrapolata dal contesto, la produzione del disco potrebbe risultare non troppo raffinata, poco innovativa, tantomeno geniale. Ma il punto sta qui, che non può – e non deve – essere estrapolata e isolata da tutto il progetto. LIBERATO è un percorso caleidoscopico dove tutto è utile e tutto è indispensabile.
Ma soprattutto c’è un dettaglio fondamentale. C’è un’insenatura, quel pezzo di terra mancata riempito dal Tirreno: è il Golfo di Napoli, ma non è solo un golfo. È una bolla di sapone, una campana di vetro dentro cui vige un incantesimo. Sarà forse per il blu del mare che si confonde con quello del cielo e così influenza tutto il resto, ma davvero, da nessuna parte come nel territorio partenopeo la confusione – un certo tipo di confusione sentimentale, emotiva – può diventare una storia bellissima (Appocundria me scoppia ogne minuto ‘mpietto). Là dentro, dentro quel golfo, di tanto in tanto, che sia poi un libro come Ferito a morte di La Capria, un film girato a Capri, una canzone immortale di un cantautore della tradizione, si riesce a levigare una pietra preziosa. Con energia, malinconia, ironia, concretezza, da quella terra riescono a prendere forma frammenti di vita che in modo unico sanno raccontare un sentimento sospeso, quella radiazione di fondo malinconica, un senso di nostalgia verso un passato mai esistito ma che poteva essere vissuto. Un senso illogico e inspiegabile (Peccè passanno forte Haje sconcecato ‘o lietto).
Con il suo primo album omonimo, LIBERATO ha portato a compimento il suo ambizioso progetto: diventare un nuovo romantico cantore dell’amore e di Napoli; e di questo mistero tutto umano che la terra partenopea – sarà per o sang r’Odisseo – riesce ad evocare più di qualsiasi altro realtà o simbolo.
E che Pino Daniele ha descritto con versi che hanno interferito qua in mezzo, facendo sentire tutta la sua influenza.
Tracce consigliate: Nunn’a voglio ‘ncuntrà, Me staje appennenn’ amò, Tu t’è scurdat’ ‘e me, Niente, Oi Marì, Je te voglio bene assaje