Il 21 ottobre del 2014, Leonard Cohen compie 80 anni. Il 23 ottobre del 2014, due giorni dopo, Leonard Cohen pubblica Popular Problems, il suo tredicesimo album. Con la stessa eleganza, lo stesso carisma, diacronicamente ci riporta all’interno del suo mondo e del suo io, attraverso il veicolo che meglio sa gestire: la musica.

Sono ormai lontani anni luce i tempi di Songs From Leonard CohenSongs From A Room, dischi in cui trionfava e dominava indiscusso il folk e che hanno presentato al grande pubblico il cantautore canadese, grazie a indimenticabili brani quali Hey, That’s No Way to Say Goodbye, Suzanne e Bird On A Wire – tanto per citarne alcuni. Sono lontani anni luce anche i tempi di Death Of A Ladie’s Man, in cui Cohen cantava malinconicamente e in maniera rassegnata della sua “estremamente noiosa e patetica vita alla Westmont High School di Montreal“. E sono lontani anni luce, chiaramente, anche i tempi di Various Positions, in cui il Lord Byron del Rock’n’Roll dipingeva struggenti strofe dall’indiscutibile valore poetico (Hallelujah, Dance Me To The End Of Love), sempre marchiate da un profondo romanticismo e da un’ancora più profonda depressione, della quale lo stesso Cohen non ha mai avuto paura di parlare. Più recenti, invece, sono i tempi di Old Ideas, disco datato 2012, che ha segnato definitivamente il confine musicale tra quello che è il vecchio Leonard Cohen, triste e speranzoso, e il nuovo Leonard Cohen, saggio ed elegante cantastorie, che ci racconta cronache di vita vissuta e subìta, come un nonno che ti porta al parco e ti narra di quando ”tanti anni fa…”.

Popular Problems, è appunto la rappresentazione più concreta di tutto ciò, di una tale evoluzione: un cassetto pieno di ricordi, esperienze e sentimenti, aperto per dare a tutti noi, ancora una volta, la possibilità di fare capolino nella vita di un uomo affascinante e a tratti misterioso, cupo e intrigante, da sempre fortemente aggrappato al desiderio di raccontarsi agli altri.
Slow, traccia d’apertura dell’album, è forse la testimonianza più autentica e tangibile della presa di coscienza del trascorrere del tempo e della caducità della vita (I’m slowing down the tune / I never liked it fast […] Its not because I’m old / Its not the life I led). Un “racconto ritmato”, con un sottofondo blues e un ritornello supportato da voci gospel, a testimonianza di quell’evoluzione già intrapresa in Old Ideas (Going Home, Show Me The Place, Lullaby) e proseguita proprio in questo disco, nella ancora più marcata Samson In New Orleans, in cui le voci che fanno da sfondo al suo racconto, assieme al violino, sono forse l’ingrediente principale. Perché proprio questi rendono ancora più diretto e struggente il messaggio che Cohen vuole mandarci, parlando del disastro causato dall’uragano Katrina, che con la sua spietata forza ha violentato e spazzato via la patria del jazz, che tanto gli era cara (“You said you loved her secrets / And her freedoms hid away / She was better than America / That’s what I heard you say.”). Samson In New Orleans non è però l’unica canzone in cui Cohen tratta argomenti toccanti e delicati. Al pari di essa, infatti, con la stessa intensità e sympatheia, ci parla di guerra e genocidio (Almost Like A Blues) e, travestitosi metà da ebreo, metà da monaco buddista, dell’Esodo del popolo ebraico sotto la guida di Mosè (Born In Chains).  A Street, composto l’11 settembre, è il brano “più blues” dell’intero album, in cui Cohen riproduce le tristi atmosfere di un uomo che, “alla fine della festa”, si “ritrova in un angolo, dove tempo fa c’era una strada”, con un chiaro riferimento all’attentato delle Torri Gemelle. Tutto ciò sempre con un forte supporto gospel, affiancato da una leggera batteria e dal piano (o l’organo, nel caso di Born in Chains). Nevermind, invece, in cui Cohen si preoccupa di dar voce a tutte le vittime innocenti di guerre, affinché queste non vengano mai dimenticate (“I had to leave / My life behind / I dug some graves / You’ll never find / The story’s told / With facts and lies / I have a name / But never mind”) vede la collaborazione di Donna DeLory, che dà vita quella voce tipicamente arabica, riproposta in più parti del brano e che contribuisce a rendere ancora più ricercato e originale l’intero lavoro.

Dal punto di vista meramente letterario, c’è poi un evidente desiderio di mantenere i temi che a Cohen sono più cari, vale a dire le delusioni amorose e quell’amarezza per qualcosa che non c’è più. E ciò avviene con la solita classe: gli anni passano e sembrano passare anche per la sua voce che, tanto tormentata quanto ardente, rende naturale una comparazione con Tom Waits, mentre si chiede Did I ever love you / Does it really matter / Did I ever fight you /There’s no need to answer / Did I ever leave you / Was I ever able / And are we still leaning /Across the old table, riscoprendo fantasmi del passato, che forse non l’hanno mai abbandonato. Versi profondi e malinconici, scanditi e intervallati da un ritmo country, sottolineati dall’ormai ricorrente venatura gospel, che supporta quasi l’intero brano. My Oh My, poi, continua proprio su questa scia, trattando essenzialmente lo stesso tema, anche se con sonorità piuttosto diverse, a partire dalla batteria, che nel brano precedente era quasi del tutto assente.

Le catene che lo imprigionano sorridente e spensierato al suo passato sono ancora più evidenti nella traccia conclusiva, You Got Me Signing. Forti venature country, voce sentita, un violino che ci accompagna fino alla fine. Cohen ci canta la sua prigionia (“You got me singing like a prisoner in a jail / You got me singing like my pardon’s in the mail / You got me wishing our little love would last / You got me thinking like those people of the past”) e pronuncia Hallelujah, quella parola lì, a cui è tanto legato e a cui siamo legati anche noi.

Singing that hallelujah song”. È proprio così che se ne va via l’ultimo brano. Ed è proprio così che Leonard Cohen, a 80 anni, con dolcezza e malinconia, ci regala un’altra, meravigliosa cronaca della sua vita.

Tracce Consigliate: Samson In New OrleansYou Got Me Singing.