Coppie volteggiano sullo sfondo di una sala da ballo dal cui soffitto, in un lentissimo piano sequenza sfocato, cadono splendendo luccicanti coriandoli; in mano un bicchiere pieno, cravatta allentata e sguardo distante, profilandosi a poco a poco l’immagine di un sempre esterno James Murphy, angolare al mercato, alla disillusione, ai rapporti fra esseri umani e all’idolatria.
La filosofia del sogno americano ben può adeguarsi, denazionalizzata, alla più intima ambizione di ciascuno: realizzarsi professionalmente, trasferirsi in terra straniera per lasciare il passato alle spalle, ricalcare le orme dei propri eroi anelando di emularne i successi. Cosa fare, però, quando gli eroi muoiono, le amicizie si inceppano, la fama avvilisce? Materica diviene quell’amara considerazione messa in bocca ad un fumetto, “My idols are dead and my enemies are in power”, scomparsi Bowie, Cohen, Reed, staccati i poster dal muro della giovinezza alla luce di un mondo, fuori, che sperimenta la bomba a idrogeno.
Sette anni fa, Murphy denunciava ante litteram la mortificazione della responsabilità artistica ed intellettuale di cui si sentiva portatore e, al contempo, rappresentante, in quel J’accuse musicale degli anni zero scagliato contro la mercificazione della qualità in favore dei numeri da classifica (You Wanted A Hit). Sciolto il gruppo, il fardello di un macro obiettivo puntato su quali potessero essere le mosse future, le sorti di una produzione sonora tanto iconica da immortalarsi a sé stante –LCD Soundsystem a marchio di riconoscimento, si è reso intollerabile: il profeta della metacomposizione, delfino del Duca Bianco e manifesto vivente di una genialità raffinata fuori della quadratura del cerchio, ha perso la direzione. Contemporaneamente, il senso di colpa per esser venuto meno ad un incontestato ruolo di vate e quello di aver riconosciuto i limiti delle proprie forze coesistono, umane debolezze dalla critica non concepibili se associate ad una figura dallo spessore così voluminoso.
Innumerevoli, dunque, le sfiduciate premesse ad anticipare il già tenue presagio della reunion della band, poste ancor più a carico delle spalle di un frontman incapace di far collimare l’adempimento al dovere e la spontanea volontà di reinventarsi, senza patirne un conflitto. American Dream viene partorito come un figlio voluto, a lungo cercato, ma raggiunta un’età in cui mettere al mondo una nuova creatura comporta più rischi che benevolenza. Come un figlio, della paternità assume i caratteri, oscillando Schopenhauerianamente fra tratti oscuri ed inquieti, pendolo incessante al di sopra della speranza e della certezza del reale. Il tratto più impressionante di un disco di tale rifinitura è la latente sensazione di tenerezza, sconfitta, come reduce da un combattimento in cui la razionalità lucida prende il sopravvento sull’idealismo: la title track American Dream è una ballata dipinta ad acquerello i cui colori si dissolvono al contatto con le lacrime, tintinnando dal volto al foglio su cui la penna ammette l’autosabotaggio dell’esistenza, crogiolati nel nichilismo di essere unici artefici della propria miseria.
“Please, please shake me”, è una mano tesa a lasciarsi salvare senza aggrapparsi, ché se si restasse a fondo ancor più giù di così, comunque, non si potrebbe cadere; non v’è cinismo, ma un amore spontaneo e incapace a pervadere questo ultimo lavoro, l’eterna consapevolezza di arrivare sul podio secondi, mai in grado di realizzare le più semplici aspettative di chi, di questo amore, è destinatario (Oh Baby). Melodicamente, oltre che contenutisticamente, il disco sprigiona una potenza ancestrale risalente alle radici, ai Talking Heads che, nella ritmica vocale e nella linea di basso sintetizzata di Other Voices e Change Yr Mind, sembrano risuonare nel proprio appartamento, parafrasando un capolavoro estratto dall’album di debutto degli LCD del 2005; al proto-punk dei Suicide in Emotional Haircut e alla new wave dei New Order lì dove, seppur con voce diversa, Tonite ben si sarebbe prestata ad essere intonata da Bernard Sumner trent’anni indietro, puntellata di influenze smaccatamente dance.
Secondo un fenomeno psichiatrico, un sogno tiepido può essere guidato, un torpore anestetizzato si può condurre all’accettazione e al risveglio: tuona e rimbomba il basso di How Do You Sleep contro la delusione sofferta per chi non si mostri all’altezza della preziosità sentimentale riconosciutagli; veloce la chitarra scandisce i lunghi minuti di Call The Police, come lo strattone alla maglietta che ti tira via dal ciglio della strada, dove assorto restavi a fissare i fari delle auto in corsa. Se le droghe, la passione, il tempo, l’età che ombrosa si affaccia a fagocitare lo spirito si identificano come tormenti -a volte deliziosi, socraticamente si potranno collocare a metà fra l’umano e il divino, demoni volti a stimolare la ragione più che a ingannarla, non più forme di delirio, ma di ispirazione, sollecitando e scatenando quella presa di coscienza che, pur avendo perso la battaglia delle relazioni fra individui e dei successi sociali, incorona la guerra dell’aver rafforzato se stessi.
Tracce consigliate: American Dream, Call The Police, Oh Baby