E poi all’improvviso arriva il nuovo album di Ketama 126. Kety è un disco che già nell’attimo del suo concepimento odora di vittoria. Una vittoria per Ketama che, dalla cameretta alla Sony, passando per un triennio tutto in salita in cui si è ritagliato il suo posto, ce l’ha fatta. È arrivato il disco importante, un obiettivo di vita raggiunto, e qui non ci piove – anzi, per essere più a tema, non ci nevica. Kety come storia umana/artistica è una storia vincente, in assoluto. Tuttavia, proprio per questo, si era vertiginosamente innalzata l’aspettativa nei confronti del lavoro 1) perché è arrivata la major e 2) perché ormai eravamo abituati alla costante crescita di Ketama, come se fosse in grado solo di migliorare. Ma qualcosa deve essere andato storto.

L’uscita di KETY è di per sé una deviazione di programma nella strada di Ketama 126, lo snaturamento di una direzione che ci sentiamo già di rimpiangere, non tanto perché non si apprezzano i cambi di programma, bensì perché un anno fa Ketama sembrava proprio aver focalizzato il mirino nel punto giusto, ma ora ha perso l’equilibrio. Il riferimento è chiaramente a Rehab, un discone con cui Ketama aveva piantato i picchetti, e dal quale appunto aspettavamo un seguito, una seconda parte annunciata e sempre rimandata, fino a oggi.

Dopo tanto vagabondaggio sperimentale, dopo tante escursioni talvolta anche confusionarie, Piero aveva capito che le frecce da tirare fuori dalla faretra erano quelle scagliate proprio con l’album del 2018: trap, drill, emocore, metal. Un miscuglio giustamente fluido di tutti questi elementi, che rappresentano sia la formazione personale di Ketama, sia alcuni tra gli impulsi più favorevoli degli ultimi cinque anni di musica nazionale e internazionale. Con Rehab, Ketama aveva dato un senso tutto suo a quell’uno due sei che porta nel nome, aveva impresso sul marchio la sua firma personale e aveva spiegato a tutti che “non ho contenuti perché sono vuoto dentro“: verso che, ironia della sorte, era proprio l’epicentro della sua musica, il bugiardino da leggere prima di capire le sue idee. E apprezzarle.

Con KETY la musica cambia. O meglio, non è tanto la musica a mutare pelle, perché la formula resta quella, ma è l’effetto che esercita, la potenza che emana a perdere di vigore rispetto alle cose a cui finora Ketama ci ha abituato.

A partire da Denti d’oro, si capisce che le canzoni hanno un tema, e che i temi non sono liberi, ma sono chiusi dentro a un programma maggiore, che è appunto la direzione che si vorrebbe dare al disco. E via allora con una serie di scatole lessicali, che rimandano alle sfere dei soldi e soprattutto a “stronzi, troie, sesso, droga, amore“. Ecco, il grido più bello di Rehab, diventa in KETY un catalogo da sfogliare, le cui illustrazioni sono ricorrenti e spesso ripetitive. In Jeans strappati (a prescindere da un Fabri Fibra sottotono che parla di perzone falze) subito si ripete “sognavo quei soldi“, dopo la prima traccia incentrata proprio sui soldi. E poi subentra il sesso, trattato, come il cliché trap vuole, in maniera dispregiativa, ma in KETY si avverte proprio tanto che si sta calando la carta di un topos di stile, e infatti in tutte le altre tracce in cui si accenna a rapporti orali e via dicendo, è subito cringe. Solo con Generic Animal in Babe si trova un bell’equilibrio di temi, tra sesso, amore e droga.

La scena trap è sorta e si è nutrita di cliché da sventolare, da innalzare come stendardo della propria idea di musica. Ketama queste insegne le ha sempre brandite, e ne ha fatto un qualcosa di diverso. La sua crescita costante è avvenuta proprio perché degli stilemi trap ne ha fatto cibo da ingerire e sintetizzare a suo piacimento, rielaborandoli in una formula tutta autonoma. Insomma, se Ketama si è sempre più trovato, negli ultimi anni, davanti al carro delle mode e dei luoghi comuni, manovrando la biga, ora, con Kety, le cose sono cambiate: Piero ci appare dietro a queste carte, sembra rincorrerle, riunirle, smazzarle e servirle lungo tutta la durata del disco con troppa, eccessiva logica e geometria.

Passando alle produzioni, quelle di Ketama sono ormai riconoscibili e in KETY concedono poco altro di più rispetto a quello che sapevamo. Atmosfere cupe e claustrofiliche, suoni plastici e freddi, innesti sempre ben posizionati di strumenti quali il sax (suonato dal padre di Ketama) e chitarre (suonate anche da Zollo) che si muovono tra l’emo e il Post Malone di Rockstar. Le mani di altri producer nel disco non ne snaturano il mood, anzi, tracce come Spara, Squame e Dirty aderiscono con grande facilità ai loro posti. I feat. sono azzeccati almeno nella selezione perché programmatici: Fabri Fibra che sancisce il grande passo, Noyz Narcos che rappresenta il modello della vecchia scuola, Massimo Pericolo e Speranza che sono il presente e il futuro vicino a Ketama, Franco 126 che è la crew, Tedua che è sodalizio artistico (Love Bandana fonde Love Gang e Wild Bandana, e conferma lo stato attuale di Tedua, una spanna sopra a tutti).

Eppure, in ogni caso, KETY sembra perdersi in una nebulosa di polvere in cui risulta difficile vedere qualcosa di preciso, sebbene forse le intenzioni dell’autore fossero proprio quelle di rendere più nitido il proprio immaginario. In questo disco, Ketama è come se avesse perso la capacità di proiettare le sue non-immagini, i suoi non-contenuti; insomma, avendoci sempre presentato il negativo del rullino, o, per intenderci meglio, la polaroid ancora non sviluppata, in questo caso invece si sente lo sforzo di voler cambiare toni, di definire i contorni e riempire la silhouette.

Nei confronti di KETY ci aspettavamo grandissime cose perché conoscevamo un Ketama ormai indirizzato solo in salita. Con l’album del grande salto, però, l’ultimo passo prima dello slancio è stato fatto indietro.