Pronti via, così, dal nulla, fulmine a ciel sereno: ci svegliamo una mattina e Kendrick Lamar ha pubblicato un nuovo disco. untitled unmastered. è poi un non-titolo molto eloquente, meglio specificato nella tracklist: ognuno degli otto pezzi è un untitled accompagnato da una data, evidentemente quella di registrazione; siamo sempre nel 2014, con due sole eccezioni, una del 2013 e una del 2016. In generale, quindi, si tratta di pezzi registrati nelle session che hanno dato vita a To Pimp A Butterfly, alcuni dei quali già portati sul palco degli show di Fallon e di Colbert e su quello dei Grammy con una performance che è già storia.

Si potrebbe pensare, lecitamente, che i pezzi siano degli outtake e, almeno sulla carta, lo sono, ma il livello è sempre e comunque molto alto. L’atmosfera che si respira è proprio figlia di TPAB: tutto è pervaso da una coltre fumosa, tra giri jazzy di piano e un basso importantissimo, fiati sinistri, beat e voci femminili seducenti; la musica, pur nella sua complessità, scorre senza intoppi e su di essa è ormai evidente come Kendrick sia a proprio agio. Al flow che ormai è marchio di fabbrica si aggiungono interpretazione, sentimento, rabbia, cuore; in generale, però, la sensazione è che le parti vocali siano meno esasperate, più canonicamente rap, e quindi più accessibili rispetto a TPAB, e quel “Levitate, levitate, levitate, levitate” di untitled 7 è già sulla bocca di tutti. Le storie raccontate si focalizzano sempre sulla comunità nera perché, ovviamente, da lì proviene il cuore che le genera, ma non mancano spunti di riflessione su tematiche più ampie quali immigrazione e l’oppressione esercitata dall’America bianca. Tutto scorre come un unico flusso di coscienza, talmente denso ed elaborato da dover essere letto come si leggevano le poesie a scuola per essere apprezzato nella sua interezza. Fa riflettere e colpisce molto il fatto che si possa riscontrare una coralità in un disco assemblato con pezzi singoli presi qui e là, e non nati prettamente nell’ottica di un lavoro coeso. Questo non fa che sottolineare come la concezione artistica di Lamar poggi ormai su basi musicali e ideali più che solide: tra una critica pubblica e una citazione biblica, lo scopo è sempre lo stesso: continuare a creare consapevolezza nella società attraverso l’arte.

Ancora una volta l’idea(le) si fa musica e la musica si fa idea(le), ancora una volta Lamar si presenta come l’uomo del Rinascimento musicale degli anni ’10, colui che ha riportato in auge l’intreccio concreto tra musica e vita quotidiana. Poco importa se (forse) il disco sia stato rilasciato perché caldamente richiesto da LeBron James. Poco importa se, oggettivamente, con otto outtake di Kendrick, molti rapper camperebbero una carriera intera. Poco importa se i pezzi, non essendo prodotti, hanno qualche sbavatura qui e là: è l’urgenza espressiva che conta.
Noi siamo qui a ribadire che Kendrick Lamar è il King Kunta contemporaneo, e quella corona se la merita tutta.

Tracce consigliate: untitled 02untitled 07, untitled 05