Habemus Kendrick, finalmente. La fumata non è però bianca, come nella papale tradizione, bensì nera, nerissima. Dai singoli rilasciati eravamo tutti sicuri che il tema dell’album sarebbe stato la fierezza nera, l’idea di négritude che ancora oggi fatica ad attecchire e a sradicare di conseguenza qualsiasi forma di razzismo. In i (in versione meno radiofonica nel disco, con l’intento forse di renderla più inserita nella visione d’insieme) Kendrick si propone in un contesto cittadino, nelle vesti di predicatore pacifista, un neo-M.L. King che cerca di infondere speranza e messaggi positivi alla sua gente nelle strade, partendo dalle proprie vicissitudini e dalle personali ingiustizie subite in passato; in The Blacker The Berry lo stesso K non esita però a fornire un quadro socio-culturale ben più pesante e violento, rimandando alla mente l’altro storico predicatore, Malcolm X: “I’m African-American, I’m African / I’m black as the moon, heritage of a small village / Pardon my residence / Came from the bottom of mankind / My hair is nappy, my dick is big, my nose is round and wide / You hate me don’t you? / You hate my people, your plan is to terminate my culture” ma nonostante ciò “You’re fuckin’ evil I want you to recognize that I’m a proud monkey”.
La musica stessa sottolinea la percezione differente di una medesima condizione, i due risvolti che può prendere una situazione di difficoltà, dal funk chitarristico a tratti danzereccio della prima, al beat ossessivo e oscuro della seconda. Ma non è un giudizio, un consiglio, una presa di posizione ciò che vuole essere trasmesso, né ipocrisia o autocommiserazione (Kendrick ha infatti condannato apertamente anche i tanti, troppi, omicidi ai danni di afroamericani compiuti da altri afroamericani), semplicemente la realtà dei fatti che trova l’ennesima riprova nei tragici eventi di cronaca di Ferguson e negli inquietanti risultati di recenti studi scientifici.
Per ultima è arrivata poi King Kunta, un fittizio presente sostenuto da una chitarra tanto minimale quanto ipnotica e un tappeto al vocoder, in cui a indossare la corona è Kunta Kinte (sempre lui, sempre Kendrick), simbolo delle ingiustizie perpetrate dagli schiavisti bianchi americani, ma anche della rivalsa e della ribellione.
Infine c’è stata l’ufficialità della copertina: un gruppo di neri davanti alla Casa Bianca in atteggiamento a metà tra l’ostile e il festante, con pose classicamente gangsta tra dollaroni, tatuaggi e bottiglie di champagne; con ai piedi un giudice bianco, morto; e con essa anche il titolo To Pimp a Butterfly (l’assonanza linguistica con il capolavoro della letteratura a stelle strisce di Harper Lee, To Kill a Mockingbird (Il buio oltre la siepe) è più che mai evidente, così come lo è anche e soprattutto quella tematica, ovviamente).
E dunque ci siamo, finalmente.
La puntina si posa sul disco, il fruscio classico, il sample è più che mai emblematico: “Every Nigger is a Star” e il clima è rilassato. Ma la realtà non è questa, bensì quella che irrompe dopo 45 secondi, quella che colpisce (“Hit me”). Il beat di Flying Lotus, il basso e il break di Thundercat, la voce di George Clinton (Parliament, Funkadelic), tre leggende che si prestano a introdurre il disco del giovane pupillo. Il funk è palpabile e i synth acuti non esitano a ricordare il g-funk. Kendrick dal canto suo non ci mette molto a far capire le proprie intenzioni: partire da Compton per essere il migliore, ottenere una posizione in prima linea e mantenerla (sebbene sia difficilissimo, come gli ricorda Dr. Dre al telefono), rimanendo però se stesso, senza farsi piegare dal sistema musicale (senza farsi “pimpare”, appunto) né da quello politico-sociale, per arrivare infine a conquistare la Casa Bianca. Ma chi sia il Wesley di questa teoria ci viene svelato alla fine: “And when you get the White House, do you / But remember, you ain’t pass economics in school / And everything you buy, taxes will deny / I’ll Wesley Snipe your ass before thirty-five”; è dunque Wesley Snipe, condannato a 3 anni di reclusione per frode fiscale. Come a dire che non importa quando o quanto tu “riesca” nella vita, qualcuno prima o poi verrà a prenderti. È ancora l’America, la società, la discografia che, su una schizofrenica e anacronistica base jazz, parla nell’interlude successivo For Free?, un mondo ostile (“Fuck you, motherfucker, you a ho-ass nigga. I don’t know why you trying to go big, nigga you ain’t shit. Walking around like you God’s gift to Earth, nigga you ain’t shit”) a cui K non vuole assolutamente regalarsi, come non esita a ricordare in un ottovolante di rime che culmina per ben 7 volte in “This dick ain’t free”, rispondendo dunque alla domanda posta nel titolo. “I’mma get my Uncle Sam to fuck you up. You ain’t no king” dice lei alla fine, King Kunta dice lui subito dopo.
La successiva Institutionalized, in un clima più rilassato contornato da malinconici fiati, critica tutti coloro che si sono lasciati tentare dal denaro, dalla fama, dall’invidia, dal business (“You lookin’ at artists like the harvests / So many Rollies around you and you want all of them / Somebody told me you thinkin’ ‘bout snatchin’ jewelry”, ed è facile pensare ai rapper tutti pussy/money/weed), tutti quelli che avrebbero dovuto ascoltare le sagge parole della cara nonna di Lamar, riportate qui da Bilal, “Shit don’t change until you get up and wash your ass nigga”, come a dire che va bene avere dei sogni, avere un obiettivo, ma occorre che questa speranza sia seguita da un impegno concreto, sempre bilanciato però da una sanità morale (“Be all you can be, true, but the problem is / A dream’s only a dream if work don’t follow it”). Ma non sono solo i ricchi ad essere “institutionalized” dai soldi e dalla fama: allo stesso modo, nell’altra faccia della medaglia, i poveri sono accomunati dal ghetto, dal crimine, dalla mancanza di vie di fuga e dagli stessi sogni di gloria di tutti. Sul finale Snoop Dogg, all’opposto di quanto detto dalla nonna, ci ricorda che “You can take your boy out the hood but you can’t take the hood out the homie”.
Non si può sradicare la vera natura dell’uomo, e se i muri potessero parlare, chissà cosa racconterebbero. Tra tastiere, linee di chitarra catchy e un ritornello da schiocco di dita si ergono i muri di These Walls, quelli metaforico-fisici di una relazione sessuale con una donna, quelli di una casa in cui Kendrick scopre che l’uomo di questa ragazza è colui che ha sparato al suo “homeboy” di cui raccontava in Sing About Me, le mura della cella in cui il killer sta scontando la sua pena. Ogni uomo ha comunque la sua cella personale, la sua stessa anima, quell’anima in cui Lamar non esita a scavare per mettere nero su bianco in u tutte le sue insicurezze, i suoi timori; in netta contrapposizione con il singolo i (come suggerisce il titolo) egli non esita a parlare di depressione, di sentirsi una “fucking failure”, di rappare con la voce a metà tra il pianto e l’ubriachezza, mentre un sax disegna una buia camera di uno squallido motel di periferia. Il fondo è stato raschiato, e il passo successivo non può che essere la risalita. Alright (prodotta da Pharrell e Sounwave) è la speranza post-depressione, la consolazione trovata nella religione (“But if God got us / Then we gon’ be alright”); non importa dunque quanto il suicidio sia stato lì a un passo (“My knees gettin’ weak and my gun might blow”), tanto alla fine “we gon’ be alright”.
Staremo tutti bene, sì, ma sarà difficile resistere alle tentazioni del diavolo, impersonato da Lucy (diminutivo di Lucifer) personaggio cardine del disco, antagonista per eccellenza, introdotto nel secondo interludio che pone una nuova domanda, ricollegandosi a quello precedente: For Sale? E no, Kendrick non è in vendita e vuole ottenere tutto con la meritocrazia rimanendo genuino, sebbene il mondo dell’hiphop continui a fornirgli scorciatoie, seduzioni, corruzioni. “The evils of Lucy was all around me / So I went runnin’ for answers / Until I came home”. Sul beat claudicante, sincopato e meno funk del solito (firmato Knxwledge) di Momma, in contrasto con i gorgheggi soul e il pianoforte in sottofondo, ci viene raccontato come effettivamente il resistere a Lucy abbia premiato il rapper, nonostante sia stata questa una rinuncia difficile e sofferta; ora egli può tornare a casa, da sua mamma. E poco importa se questa mamma sia la genitrice, sia Compton, sia l’Africa o semplicemente uno stato mentale: è la sensazione di essere al sicuro che domina, in uno spazio dove tutto il passato, il futuro, e soprattutto il presente vengono rivalutati (“I know how people work / I know the price of life, I’m knowin’ how much it’s worth / I know what I know and I know it well / Not to ever forget until I realized I didn’t know shit / The day I came home”). La stessa mamma viene poi ripresa in You Ain’t Gotta Lie (Momma Said), racchiusa tra i due singoli i e The Blacker The Berry. Kendrick ripensa ai consigli della madre, la quale gli ricordava di non mentire mai, né agli altri né tanto meno a se stesso; lui mette in pratica questi insegnamenti e cerca di dispensarli anche ad alcuni suoi illustri colleghi, soliti mettere in mostra diamanti e oro, ma che in realtà hanno ben poco da dire e, anzi, mal celano le proprie insicurezze (“I could spot you a mile away / I could see your insecurities written all on your face / So predictable your words, I know what you gonna say / Who you foolin’? Oh, you assuming you can just come and hang / With the homies but your level of realness ain’t the same / Circus acts only attract those that entertain / Small talk, we know that it’s all talk / We live in the Laugh Factory every time they mention your name”); da segnalare qui un’ottima produzione di LoveDragon.
Il trio Hood Politics, How Much a Dollar Cost e Complexion (A Zulu Love) è poi da capogiro: nella prima ritroviamo un campione di Sufjan Stevens (ad opera di Tea Beast) su cui K-Dot si lancia a fiume con una voce pitchata in alto, da ragazzino, per raccontare le regole del ghetto; nella seconda, forse la perla del disco (ancora LoveDragon in cabina di regia) su di un vago richiamo musicale ai Radiohead di Pyramid Song (sebbene non compaiano nei samples ufficiali), l’artista pensa a quel dollaro ingiustamente ed egoisticamente negato a un senzatetto, un insignificante dollaro per lui, un’immensità per l’altro. Solo nel momento in cui Kendrick accetta di parlare con il barbone, quest’ultimo gli rivela di essere Dio, e che con quel dollaro rifiutato si è appena giocato il suo posto in Paradiso: «He looked at me and said, “Your potential is bittersweet” / I looked at him and said, “Every nickel is mines to keep” / He looked at me and said, “Know the truth, it’ll set you free / You’re lookin’ at the Messiah, the son of Jehova, the higher power / The choir that spoke the word, the Holy Spirit, the nerve / Of Nazareth, and I’ll tell you just how much a dollar cost / The price of having a spot in Heaven, embrace your loss, I am God”». La terza ospita Pete Rock per un ritornello tanto siderale quanto old-school e Rapsody, unico featuring che rappa per davvero nel disco, per la seconda parte del pezzo; in generale l’atmosfera è più rilassata, se volete anche un po’ paracula sia nella musica pop-soul da singolone che nelle tematiche: amore universale e per ogni sfumatura di nero, rispetto reciproco, gioia nell’ammirare le bellezze del Creato. Ad ogni modo, l’ennesimo pezzo riuscito.
E infine i dodici minuti di Mortal Man, in cui il rapper si rende conto di avere il potere e l’attenzione necessari per poter diventare un nuovo leader, così come lo furono Mosè, M.L. King e M.L. King Jr., Malcolm X, Nelson Mandela, JFK, Huey Newton. Così come lo fu Tupac, che egli stesso intervista nella parte finale finale del pezzo, tutto parlato con sottofondo di piano e sax, estrapolando le risposte che Shakur diede durante un’intervista del ’94. Il tutto si conclude così: Wings begin to emerge, breaking the cycle of feeling stagnant. Finally free, the butterfly sheds light on situations that the caterpillar never considered, ending the internal struggle. Although the butterfly and caterpillar are completely different, they are one and the same.” / What’s your perspective on that? / Pac? Pac? / Pac?!”. Non c’è risposta. Non c’è nient’altro da aggiungere.
Quella qui sopra non vuole essere la verità riguardo al disco, ma soltanto una delle tante chiavi di lettura dell’opera. Se la musica su cui poggiano i testi è riassumibile in funk, jazz, e tutto ciò che vi ruota(va) attorno (e sinceramente mi sarei aspettato anche un qualcosa in più da questo punto di vista, magari più ricerca ed estro nei beat, più finezze peculiari e meno rimandi al passato – vi prego non lanciatevi in lodi su come Lamar abbia riscoperto il funk), le liriche sono più che mai labirinti in cui è facile perdersi, sommersi dalle molteplici interpretazioni e tante citazioni più o meno esplicite. È normalissimo dunque provare un senso di straniamento dopo i primi ascolti, e per questo è opportuno rimandare il giudizio dopo numerosi replay, prendersi il tempo che serve per assimilare tutte le parole rilasciate (troppo?) spesso a macchinetta, con quell’ormai distintivo flow. Le tracce sono poi tutte collegate, è tutto un fluire continuo, proprio come la vita (eloquente è in questo senso la posizione di i, lì sul finale, la speranza per il futuro).
Se ancora state leggendo vi sarete sicuramente resi conto che To Pimp a Butterfly non è l’inno generazionale che tutti ci aspettavamo. O meglio, può esserlo in un certo senso o, meglio ancora, potrebbe diventarlo. Questo disco è però innanzitutto la storia di Kendrick Lamar oggi, raccontata in prima persona e ripresa da dove l’avevamo lasciata in good kid, m.A.A.d. city, le sue paranoie e le sue riflessioni post fama, le difficoltà, le pressioni che deve vivere costantemente. Un nero che ce l’ha fatta, come molti altri sì, ma che si allontana dallo stereotipo del povero arricchito, che rimane ben saldo coi piedi per terra pur lanciando i pensieri in cielo. Non c’è bisogno di To Pimp a Butterfly con lui, lui col dono di essere farfalla ci è nato, e lo sta dimostrando al mondo intero con duro lavoro e impegno, distinguendosi sempre e comunque in bene.
Questo disco potrà fare il passo successivo (così come il precedente lavoro) nel momento in cui gli infiniti insegnamenti contenutivi saranno applicati alla vita vera. Un’utopia? Sicuramente. Tutte le grandi opere artistiche hanno però insite una funzione, un qualcosa in più che riesce a smuovere l’animo umano.
In questo senso Kendrick pare essere riuscito nell’arduo compito di coniugare una musica non sorprendente ma tutto sommato coinvolgente a un vero e proprio messaggio. Il messaggio che è sempre stato il fulcro del genere e che troppo spesso oggi è passato in secondo o terzo piano, un messaggio che per K-Dot diventa speranza, pensiero positivo e tutto ciò di cui oggi abbiamo bisogno.
Kendrick Lamar non è solo uno dei tanti rapper di oggi. È innanzitutto un uomo consapevole, poi un pensatore, infine un artista. Kendrick Lamar è un grandissimo paroliere, di quelli che difficilmente verranno dimenticati.
Tracce consigliate: How Much a Dollar Cost, Wesley’s Theory, You Ain’t Gotta Lie (Momma Said), Complexion (A Zulu Love).