La recensione di un album pop di grandissimo consumo si potrebbe sostanzialmente affrontare con una domanda: c’è un buon numero di pezzi che avranno facile e vasta esposizione mediatica fra radio, tv, passaggi remixati in discoteca? Quanto è alta la capacità delle canzoni di fissarsi in testa in maniera quasi autonoma, senza che lo si voglia veramente?

Dico questo perché, onestamente, credo che nessun ascoltatore maturo si aspetti sublime artisticità e/o originalità rivoluzionaria da un album di Katy Perry. Per rispondere alle domande, e per dare un’introduzione a quello che è il mio pensiero su questo album in particolare, possiamo già dire come a mio avviso, sia in assoluto la peggiore prova in studio della discografia della cantante e tettona californiana . In tutta onestà bisogna osservare come Prism sia effettivamente più vario musicalmente dei suoi predecessori, grazie ad una produzione che ha deciso di osare rispetto al passato, forse per stare al passo con le colleghe: la tracklist al contrario presenta la solita mescolanza di brani (che vorrebbero essere) ad alta radiofonicità dal richiamo pop dance (ciao Marco Marfè!) e ballatone nelle quali narrare le pene d’amor perduto.

Da più di due mesi è uscito il singolo apripista di Prism, Roar: sorvolando sul testo, che ricalca lo stereotipo della canzone che, è proprio questo il caso di dirlo, invita a tirare fuori le unghie (già visto nella ben più riuscita Firework), il brano è terribilmente scialbo, non brutto ma molto più vicino alla definizione di mezzo filler che a quella di hit. La produzione, sebbene sia stata affidata ancora una volta agli esperti hit-maker Dr. Luke, Max Martin e Bonnie McKee non salva Roar dagli sbadigli. E se iniziamo così…
Tra i brani decenti o perlomeno salvabili vanno segnalati Walking on Air, caratterizzato da una sonorità ballabilissima a metà tra il pop, la dance anni ’90 e la disco dei ’70 con tanto di vocalist di colore a completare il quadretto e la ballata elettronica Unconditionally, secondo singolo estratto. Per i restanti 40 minuti scarsi, l’album si trascina tra tentativi tra il ridicolo e l’allucinante, vedi Dark Horse che gode sì di una gran base trap/grime/hip hop ma completamente inadatta alla nostra signorina. Il featuring di Juicy J (per gli ignari, MC dei Three 6 Mafia, mica pizza e fichi) è fuoriluogo a dire poco, trashissima l’idea di citare Jeffrey Dahmer in un brano simile.
La seconda metà dell’album che si apre con This Is How We Do, è tutta in costante discesa: la succitata canzone, insieme a International Smile e in misura minore a Ghost navigano nel mare della mediocrità ma perlomeno dimostrano potenzialità per le piste delle discoteche. Molto peggio fanno Love Me o Double Rainbow, semplicemente prive di appeal.
Conclude l’album la ballata By the Grace of God, senza lode e senza infamia ma con qualche spunto vocale non disprezzabile, anche se è più che lecito aspettarsi che sia una magia delle registrazioni in studio.

Katy Perry (o l’etichetta?) voleva ardire un pop non tanto più maturo quanto più vario, forse rincorrere con moderazione le puttanate wannabe avanguardistiche di Lady Gaga (musicali e non solo): Prism è invece l’amara dimostrazione che un team di autori affermati, produzioni stellari, cazzi e mazzi non riescono davvero a far fare il vero salto di qualità ad una pop star che da parte sua non ha mai dimostrato troppo talento. Qualcuno di buon cuore consigli alla nostra pettoruta cantante di tornare a lidi più sicuri.

Recommended tracks: Walking on Air