È di un paio di mesi fa un video in cui Julien Baker, su KEXP per suonare qualche pezzo e parlare del nuovo disco Little Oblivions, risponde alle domande di Cheryl Waters seduta davanti al ritratto del suo amico Scott Hutchison dei Frightened Rabbit. Qualcosa ha fatto clic nel vederlo lì e nell’ascoltare i nuovi brani suonati da Baker: ho pensato all’influenza di Scott nella vita e nella musica di Julien, iniziando a notare quanto siano simili le loro penne e – in parte – le loro storie. Un tratto comune a Hutchison e Baker è quello di raccontare l’autodistruzione in modo tagliente per poi minimizzarne la gravità, con quella che in inglese si chiama self-deprecation (la cui mestizia non è contenuta nell’italiano “autoironia”). L’identità di Julien Baker è ancora più complessa, però: Little Oblivions è, in sostanza, l’album della ricaduta dopo anni di sobrietà, e del senso di colpa verso se stessa, verso gli altri e verso dio – in cui Baker (formalmente di fede evangelica) crede, ma che sente di non meritare.

Little Oblivions è – per usare una metafora ormai esausta ma qui davvero calzante – un disco che ti spezza il cuore. E Julien Baker, come Scott Hutchison, sa spezzarti il cuore nel momento giusto, perché è lei quella che è a cuore aperto; però lo fa quasi in punta di piedi, tra un verso e l’altro. All’interno dell’album sono molti i momenti autodistruttivi e di self-deprecation: Song in E apre con “I wish that I drank / Because of you and not only because of me / And then I could blame something painful enough / Not to make me look any more weak” e affonda definitivamente con I wish you’d hurt me, it’s the mercy I can’t take”; Heatwave invece è ancora più diretta: “I was on a long spiral down / Before I make it to the ground / I’ll wrap Orion’s belt around my neck / And kick the chair out”. L’intero album è una fila di rimorsi verso se stessa, imbarazzo verso le persone a lei care, per cui non vorrebbe essere un peso (Favor), e di dubbi non esattamente verso la sua fede, ma verso quella di dio negli umani (Ziptie). In Favor c’è un verso che esemplifica al meglio il talento autoriale di Baker nel raccontare qualcosa di irrilevante per ricondurlo alla narrazione del tutto: trovarsi, una notte, a staccare una falena dal radiatore di una macchina e pensare “How come it’s so much еasier / With anything less than human / Letting yoursеlf be tender?” quando non riusciamo a fare altrettanto nei confronti di chi ci sta vicino nei momenti peggiori?

Ma è anche il nuovo sound di Little Oblivions a ricordarmi i Frightened Rabbit: Julien Baker ha sempre fatto tutto da sola, specialmente con Sprained Ankle (2016) ma anche con Turn Out the Lights (2017), che di ‘esterno’ aveva solo gli archi. Il passaggio alla full band sembrerà un po’ alieno a chi non è stato attento, ma è probabilmente la conseguenza logica delle tantissime collaborazioni degli ultimi anni: da Hayley Williams ai Touché Amoré, dai Manchester Orchestra per arrivare al successo del progetto Boygenius con Phoebe Bridgers e Lucy Dacus, Baker aveva già in passato espresso la voglia di tornare in una band (principalmente per suonare la chitarra, diceva). In Little Oblivions Baker suona quasi tutto, ma a spiccare sono non solo le percussioni tanto assenti nei lavori principali, ma l’intenzione di creare un sound più pieno che accompagni la sua cifra stilistica, soprattutto quella cristallina della sua chitarra di chiara impronta (“twinkly”) emo (Repeat, Faith Healer), con cui ora crea muri di suono e crescendo (Hardline, Ringside). L’influenza degli ultimi Frightened Rabbit la si sente nella produzione vicina a quella di Aaron Dessner, che intreccia chitarre e piano per creare una forma trasversale di pop (Relative Fiction, Bloodshot, Highlight Reel) che ricorda non solo Hutchison ma anche i Pedro the Lion (sicuramente non un caso). La reunion con le Boygenius arriva in Favor, mentre il sound più minimale fatto di piano e poco altro torna in Crying Wolf e Song in E (un classico al primo ascolto, “like a lost standard“).

Molti già lamentano il vecchio sound (e probabilmente lo criticherebbero se fosse rimasto uguale). Ma per un’artista la cui identità non è solo quella degli album da solista, stagnarsi sarebbe stato ancora più deleterio. Little Oblivions non è altro che l’evoluzione organica di una persona imperfetta e di un’autrice inimitabile, i cui brani si svelano strato per strato ad ogni ascolto, e la cui vulnerabilità non si nasconde dietro a metafore, ma diventa forza motrice della sua identità e della sua musica.

Tracce consigliate: Song in E, Favor, Faith Healer