Anecdotes cannot say what Time may do. Dopo un’immersione in Divers non potremmo che essere d’accordo. Tra gli aneddoti che ruotano intorno al personaggio di Joanna Newsom, californiana che degli stereotipi sulla California è l’antitesi personificata, ce n’è uno che narra di una particolare esperienza alla soglia dei 18 anni: tre giorni in solitudine nei boschi alla ricerca del proprio animale totem, a sancire il passaggio dall’infanzia alla vita adulta. La storia ha un finale degno dei fratelli Grimm (e comodamente disponibile su Wikipedia per i più curiosi) e dipinge un’immagine della protagonista che è la stessa che ritroviamo in Anecdotes, la traccia che apre il suo quarto album in studio: oggi Joanna di anni ne ha 33, non si fa alcuna fatica ad immaginarla ancora discorrere con i passerotti come un personaggio disneyano, ma la narrazione delle sue incursioni nella natura diventa esegesi melodica di temi mastodontici, come quello del Tempo, che a conti fatti è il leit-motiv di Divers. Per farla breve, se dopo gli esami di maturità ve ne siete andati in Grecia ad ubriacarvi come dei Silvio Muccino qualunque, mi spiace, ma la Joanna probabilmente non fa per voi.

Se è vero che la nostra è un’epoca incapace di produrre espressioni musicali immuni da sindrome retromaniaca, e nella maggior parte dei casi l’ostinarsi a rovistare in soffitta ha la faccia della mera incapacità di immaginare il futuro, ad alcune eccezioni va però riconosciuto il merito di essere operazioni consapevoli e metodiche, ricerche che anelano ai primordi allo scopo di sondare le opportunità offerte da direzioni che la storia non ha intrapreso. In quest’ottica, l’opera della Newsom non solo è indubbiamente musica del nostro tempo, ma sembra anche essere una delle forme migliore che questa può assumere.
Inclusa spesso in quel filone noto come New Weird America (che pure è un escamotage mal riuscito di tenere insieme alcuni fenomeni avant-garde che poco hanno in comune oltre alla difficoltà nel venire incasellati diversamente), la Newsom perde ogni connotato naïf sin dal secondo album (Ys, 2006). L’impostazione classica è lampante negli arrangiamenti dalle logiche complesse in cui dominano voce e arpa, in lunghissime composizioni che non temono di suonare ostili quando le necessità narrative lo impongono. Con un approccio revisionista per certi versi simile a quello dei Charalambides, la Newsom sembra riavvolgere il nastro sino a giungere alla materia prima che finì per generare il rock comunemente inteso, quelle espressioni spontanee della giovane America bianca, che traduceva nella lingua concreta del Nuovo Mondo il bagaglio culturale europeo mentre assorbiva i ritmi aggressivi e l’attitudine all’improvvisazione dell’America nera. La musica di Joanna non è nostalgia decadente, è amore per il rudere in senso strettamente romantico, ed è un amore “attivo”, che invertendo gli addendi – opera classica, cultura hobo, vaudeville, country, blues, canzone europea, tropicalismo, ritualità africana – offre al passato nuove possibilità.

L’intento ambizioso si traduce prima negli smisurati madrigali di Ys per passare poi alle orchestrazioni sontuose di Have One on Me del 2010. Dopo cinque anni e il vaglio di validi arrangiatori (tra cui David Longstreth dei Dirty Projectors e il compositore Nico Muhly, noto anche per aver collaborato con Björk e Sufjan Stevens), Divers suona come un ulteriore passo avanti sotto i molti aspetti di un processo forse ancora in divenire.
Le contrapposizioni si fronteggiano senza stridere, gli spigoli sono smussati, le linee vocali in un certo senso addomesticate: l’amalgama è deliberatamente più fluida senza risultare meno densa, suddivisa in atti di durata consona alla musica leggera. Più fruibile, dunque, ma non per questo meno suggestiva: le liriche criptiche celano i consueti rimandi storici e letterari convivendo serene con i layer sonori.
Sapokanikan mutua il nome da un insediamento che sorgeva nell’area del Greenwich Village di Manhattan, e a suon di pianoforte rievoca dall’oblio un’America che profuma intensamente di leggenda, un mondo destinato allo stesso inevitabile declino che toccò al regno di Ozymandias (col richiamo al protagonista dell’omonimo sonetto di Percy Shelley torna la propensione al romanticismo, la stessa dichiarata sin dall’inizio dall’artwork del disco, su cui campeggia uno degli inquietanti landscape dell’artista Kim Keeves).
I temi della perdita e della disfatta tornano in Goose Eggs, che quasi recupera la forma canzone e costituisce il più melodico degli esercizi vocali contenuti nel disco, mentre ancora una volta gli elementi naturali si fanno metafora di dinamiche prettamente umane. Le pizzicate di arpa in apertura alla title track generano un loop sensuale che guida sonorità provenienti da un passato esotico e remoto, luoghi musicali dai contorni incerti fatti di madrigali e di nenie orientali. Divers, un titolo dal doppio significato a seconda della lingua in cui lo si interpreti (“vario” in francese, “che si tuffano” in inglese), e forse da intendersi appieno solo ricorrendo ad entrambe. In alcuni episodi, come nella morbida You Will Not Take My Heart Alive, i timidi accenni sintetici sembrano smentire l’avversione per la modernità, come varchi da cui filtrare il presente per fargli spazio in un mondo a tinte sbiadite. Time, As a Symptom, sinfonica ma eterea, avanza leggera in un crescendo costruito per aggiunte e chiude questo quarto capitolo con la verve orchestrale di quello precedente.

Quella di Joanna continua ad essere un opera di traduzione di se’ stessa e delle sue fascinazioni, condensandole in musica con un rigore da architetto del suono, alla ricerca di una lingua che il resto del mondo possa comprendere.

Tracce consigliate: Leaving The City, You Will Not Take My Heart Alive, Time, As a Symptom