Illum Sphere è un nome complicato da pronunciare in Italia, non credo quindi, che qui in loco, possa diventare famoso più di quanto lo sia già. Peccato; giovane e atletico, altezzoso il giusto, garbato e simpatico, ascoltatore sincero ed enigmatico, capello incolto, barba a tratti. Un giovane d’oggi, uno spensierato dj, un’amorevole producer, un amico per fiducia. Peccato, tutte qualità perse, crollate, scartate, così in una volta sola, in un taglio decisivo, un taglio netto, periferico. Ah bei tempi quelli che SCUSA SE TI INTERROMPO, VORREI SAPERE QUALCOSA DI PIÙ SUL DISCO, L’HA FATTO LUI? ILLUM SPHERE?
Figurati; sì, certo l’ha fatto lui, ci sto arrivando. Quindi, dicevamo, bei tempi quelli in cui noialtri SCUSA ANCORA TI DISPIACEREBBE PARLARE DIRETTAMENTE DEL DISCO? Del disco? Certo, non c’è problema, ci stavo giusto arrivando, ma se hai fretta per me non c’è problema, non ho problema GRAZIE GRAZIE DAVVERO.

Capitolo: Illum Sphere si chiama Ryan Hunn, è di Manchester, e con Ghost of Then and Now è al suo primo LP dopo qualche anno di attività. Prima di questo disco si era già fatto sentire in giro con qualche comparsata, qualche EP, qualche remix dei Radiohead, un locale chiamato Hoya:Hoya, nel giro di Manchester, che ha costruito da sé, assieme a un altro che si chiama Jonny Dub.
Ora, arriviamo al punto, cosa c’è in Ghost of Then and Now? Francamente, un sacco di roba. Elencare tutto quello che fa venire in mente è praticamente impossibile, ci sono ritagli di tutto cazzo; un sacco di black music gospel soul, ad un tratto samba, e poi deep house, dubstep, minimal. Ma è tutto coeso nella stessa chiave? Fa un tutt’uno? Un unicum? No, no, no. Se posso dire la mia è lontanissimo da un unicum, come lo chiami tu, è tutta roba sparatratta, accostata d’ingegno ma non presa nell’essenza, capisci? L’unico unicum al quale può alludere potrebbe essere lo spazio, in senso ancestrale, non so se mi spiego, con tutte le stelle, i pianeti, e così via dicendo… Capisco, ma quando dici “accostata d’ingegno”, a cosa ti riferisci esattamente? E… a un sacco di roba. E ‘sti cazzi; accostare una base dub a dei cori gospel è “accostare d’ingegno”, non so se mi spiego, l’andamento è lo stesso, cade nella stessa maniera, mi capisci? Si, certo, ma quindi cos’è che non ti convince? Ma te l’ho detto, è roba sparatratta! È roba buttata lì, accostata bene sì, ma non dice niente. Non dice un cazzo di niente! Posso dire la mia? La posso dire? Manca di struttura! Ah, eccoci. E quindi? Spiegami meglio. La struttura è fondamentale in dischi del genere. Mi spiego meglio, tutti sappiamo che la musica house, per esempio, ha una struttura semplicissima basata sull’alternarsi di forte e piano, la cassa, il tappeto musicale sotto, però, rimane lì, sempre uguale per tutta la canzone, perché pensato su tempi lunghi, per far ballare! Eh, e quindi? Quindi il Jazz o il rock o il blues hanno strutture diverse! E quindi, per diamine? Quindi se vado ad accostare una base house a un pezzo blues, impongo a quest’ultimo un andamento che non gli appartiene, un andamento house, che lo blocca sul nascere. Mi capisci? Il primo pezzo di questo disco, per esempio, mette insieme una serie di premesse che dovrebbero portarlo lontanissimo e invece rimane lì, dov’era prima, non si muove di un passo, non si evolve, manca di struttura, di sintassi, rischia di essere una sorta di proto-linguaggio primitivo buono solo ad aggiungere sinonimi alla parola prima. Si si, credo d’aver capito a cosa alludi. Bene, Grazie. E quali sono i pezzi migliori secondo te? Beh, tenendo presente tutto quello che ho detto, sicuramente tutti quelli in feat. con Shadowbox, probabilmente lavorare con qualcun altro lo sprona a regolarsi, e poi Near the End, davvero molto carino, si. Bene, a questo punto non posso fare altro che ringraziarti.

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