Alla voce “gruppi dalla forte connotazione politica a sinistra” chi vi viene in mente? Gli Ska-P? Spero di no, c’è un limite a tutto. Prendete i Gang of Four, se proprio dovete. Fondati da due studenti d’arte con il bernoccolo per il marxismo negli anni non facili del Regno Unito thatcheriano, hanno saputo sopravvivere allo spirito del tempo che li ha messi in moto e, nei decenni successivi, si sono affermati come uno dei gruppi alternative rock più influenti, andando a far parte anche del pantheon di band tutto tranne che schierate. Mai particolarmente positivi o fiduciosi nell’avvenire, hanno sempre rappresentato quell’ala dell’analisi politica in musica che, con una certa intelligenza e perché no lungimiranza, non fa proclami enfatici ma disilluse analisi in versi. Certe loro riflessioni cantate a fine anni settanta erano vere e sono ancora più vere oggi.

What Happens Next è, sotto questo punto di vista, già tutto un programma. Due torri simmetriche di vetro e acciaio, alte fino a perdersi alla vista, immerse nel grigio e radianti il medesimo colore, un titolo a metà tra l’impaurito e l’esausto. Però, se a prima vista sembra tutto in linea con le visioni del prima, a grattare un po’ si nota che qualcosa è cambiato, anzi più di qualcosa. Rimane solo Andrew Gill dell’intera line-up originale; Andrew Gill che prende su di sé la gran parte della responsabilità per questo nuovo lavoro e che sembra relegare i tre altri membri a ruoli di modesti esecutori semi-anonimi.
Where the Nightingale Sings è l’attacco: sembra di sentire qualcuno di molto simile a certi Depeche Mode, tanta elettronica, distorsioni, un ritornello cantilenante. Nella sostanza, una sorpresa non esattamente gradita forse non è il modo migliore per iniziare un album.
Broken Talk (feat. Alison Mosshart) è già decisamente… peggio. Le idee assomigliano a quelle del brano precedente, con ritmiche più serrate e più aggressive; il problema è che il risultato, con l’alternanza delle voci, sembra qualcosa di uscito dalla peggior scena industrial rock tamarra anni 90/00. I KMFDM hanno fatto cose che in qualche modo (molto vago) me li fa ricordare durante l’ascolto ma con tutt’altro piglio, tutt’altra violenza. Broken Talk è mollezza pura sommata a ripetitività sommata a già sentito.
Un passo avanti arriva con Isle of Dogs; le idee si concretizzano di più, la forma canzone fila meglio lungo i binari. Difficile urlare al miracolo in ogni caso e subito dopo ritorna miss Mosshart per un episodio ancora notevolmente sotto la soglia di sopportazione.
Arriva First World Citizen che sembra voler picchiare duro, salvo poi perdersi come buona parte del resto dell’album.
Per un miracolo (di sfiga) nemmeno il brano in chiusura, Dead Soul, riesce a risollevare qualcosa, anzi. Come aspettarsi d’altronde un cambio di rotta al trentacinquesimo di trentotto minuti? Impossibile, ma non solo. Riesce perfino ad essere uno degli episodi più irritanti del lotto, impresa niente male.

A tutti gli effetti non sembra sbagliata quella critica del NME che parla di What… come di un esperimento del solo Gill, impropriamente a nome dei Gang of Four. Ci sono poche idee, quelle poche sono mal trasmesse dalla teoria alla pratica e il tutto annega malamente nel grigiore della copertina; grigio che però per noi non è lo smog spirituale e umano di un mondo senza speranza ma bensì la noia micidiale che sopraggiunge durante l’ascolto e il fastidio che la accompagna fido.
In chiusura, aggiunto questa nota terrificante: i Gang of Four si sono trasformati nei Muse. Ecco, ecco quelle atroci somiglianze che non riuscivo/non volevo riconoscere. Che brutta fine.

Traccia consigliata: Isle of Dogs