In Multisala, suo secondo album solista, Franco126 si evolve in uno stadio di nostalgia ulteriore, per cui del suono urban e grezzo che ha contraddistinto le prime Polaroid e dello stile peculiare e raffinato di Stanza Singola resta solo un leggero pulviscolo. In Multisala predomina un’ossessione: la musica leggera italiana, anzi leggerissima. Attenzione però, non c’entrano Dimartino e Colapesce, ma c’entra proprio quel genere che ha monopolizzato la vinilite di tutta Italia dal secondo dopoguerra in poi per il resto del secolo, tra chitarre acustiche, percussioni esotiche e sentimentalismo mediterraneo.

Multisala è un disco pieno di melodie, suoni e riflessioni che rimandano a cantautori italiani che hanno proiettili nel cuore; a grandi autori sciupafemmine della canzone romana; a interpreti divine della canzone nostrana che con capelli rossi incredibilmente acconciati avevano il controllo delle fantasie dei nostri padri. Insomma, sotto il baffetto sornione di Franco126 si nasconde ormai, definitivamente, un altro baffetto, quello del cantautore anni ’70, quello che tra l’altro fu un gran donnaiuolo, gran piacione, prima che grande (?) cantautore. A metamorfosi completata, anche la musica di Franco126 sembra aver perso forza: l’ancoraggio nostalgico a un passato venerato ha fatto perdere all’album aderenza al presente, che era uno dei punti di forza dell’artista romano.

Multisala è tutto un accartocciarsi in un esistenzialismo amaro, in rapporti marciti, in solitudini forzate, in ritratti ormai poco simbolici e narrazioni stanche di una generazione complicata, col futuro incerto eccetera eccetera (per favore basta). Come suggerisce il titolo dell’album, assistiamo ad un film lungo poco meno di quaranta minuti, ma a questo punto un film già visto. Le immagini di Che senso ha, Blu jeans, Vestito a fiori, Maledetto tempo, per esempio, sono ormai stantie in un contesto di it-pop morto e sepolto. Così come Miopia e Maledetto tempo si avvicinano alla pochezza poetica e sentimentale degli ultimi Gazzelle e Frah Quintale, e Simone, brano formato sul modello del ritratto, ne esce invece fuori come il bozzetto di un perdigiorno di quartiere, che – diciamolo con un eufemismo – non segna nel profondo l’ascoltatore. Accidenti a te è una Noccioline senza la carica di freschezza di quest’ultima; Nessun perché è un Alan Sorrenti (spruzzato di Giorgio Poi) che incontra nel ritornello un abbozzo di Primavera di Marina Rei, traccia regina delle pubblicità televisive (tanto per intenderci).

Solo in Ladri di sogni si sente, finalmente, uno sprazzo della genuinità con cui Franco126 aveva attirato le attenzioni su di sé, agli albori della sua ascesa in collaborazione con Carl Brave: la genuinità di quando, pur avendo degli idoli che certamente influenzavano la sua poetica, questa risultava comunque originale e innovativa.

Multisala vuole essere un disco melanconico, ovviamente. Malinconia che dovrebbe essere accompagnata dalla voce di Franco che, si sa, non è il suo forte, ma in questo caso, oltretutto, viene perennemente modellata con un graffiato più accentuato del solito, poco gradevole, che raschia tutti gli arrangiamenti (molto poco arditi) che compongono il lavoro. Dopo Lieto fine, si rimane con l’idea che Franco126, in Multisala, si sia paralizzato nella sua stessa maniera, che possiamo definire, arrivati fin qui, la sua illusione: l’illusione di plasmare, nelle sue canzoni, un mondo contemporaneo fatto però di sensibilità retró. Una maniera di fare musica che, giunti a questo punto, paga poco: abbiamo preferito infatti fare un viaggio nello spazio di Venerus, oppure ballare coi Vergine, anziché entrare in questo cinema.

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