Ricordo ancora quando, attorno ai miei 14/15 anni, mio padre lo ascoltava nello stereo in casa, nella radio in macchina. Io mi ribellavo e pensavo che schifo. Ma cosa dice questo, ma che musica è. Dannati vecchi cacciate gli assoli e i powerchord.
Con la maturità anagrafica è giunta poi, piano piano, anche quella musicale. Ed è stato allora che mi sono accorto di essere stato un perfetto idiota, scoprendomi ingordo e voglioso di ripescare, per poi rivalutare con occhi a cuore, quei pezzi “da vecchio” che tanto odiavo, quelli più pop, spingendo poi le mie ricerche fino alle sperimentazioni più eclettiche.

Ora dico fieramente, senza paura, che Franco Battiato è il mio artista italiano preferito, nonché uno dei più grandi geni musicali di sempre.
Potete dunque immaginare lo stupore misto all’ansia misto alla gioia misto alla paura che mi pervade ogniqualvolta il prolifico artista decida di partorire un nuovo tassello della sua vasta discografia; in questo caso specifico accompagnato dal fidato produttore Pino Pischetola.
E l’esplicito ”experimental” nel nonsense del titolo Joe Patti’s Experimental Group pare da una parte promettente, dall’altra quasi oltre la soglia dello sfacciato.

Il viaggio di questo nuovo album inizia tra sfumature ambient con paesaggi sonori delineati dalle macchine analogiche sapientemente modulate dal caro vecchio Franco, offuscati sul finale da un break di drum machine, un sinistro presagio. Si procede poi sempre su territori lisergici con Le voci si fanno presenze, con il pianoforte scarno di Klavier e poi ancora con i synth di Omaggio a Giordano Bruno.
Come un branco di lupi presenta i primi segni di deviazione: inizia con una drum machine in 4/4, prosegue con sporadiche parole e un basso arpeggiato, per poi concludersi sugli accordi di un pianoforte.
Seguono poi altri momenti ambient: The Implicate Order, Nel cosmo e i primi minuti di CERN, la quale svolta nel finale con uno di quei pattern percussivi oggi tornati tanto di moda con lo sdoganamento della techno. Genere riesplorato nella riuscitissima L’isola elefante, la quale precede la chiusura siderale di Proprietà proibita.
Tutti gli elementi vengono permeati di una delicatezza accorta, di un piglio d’esperienza, un riverbero luminoso che emoziona attraverso un uso centellinato del cantato.

Joe Patti’s Experimental Group può essere facilmente travisato. Potrebbe apparire come il lavoro di un vecchio rimasto senza assi nella manica, che arranca per cercare di stare al passo coi tempi, scimmiottando artisti contemporanei che ormai lo hanno superato in genialità e notorietà. Potrebbe sembrare quasi forzato.
La cosa da tenere bene a mente però è che Battiato queste cose le faceva ben prima che l’era contemporanea arrivasse, o anche solo si affacciasse al mondo; armeggiava con i sintetizzatori già negli anni 70, quando la disco music nasceva. Non bisogna nemmeno dimenticare che anche il Battiato più pop era solito inserire elementi mai banali nelle composizioni più radiofoniche, e questo è uno dei fattori che ha contribuito a renderlo il mito che è.
Niente di nuovo dunque all’orizzonte, niente di “sperimentale” nel senso proprio del termine, niente di rivoluzionario.
Come fu Lux per Brian Eno, Joe Patti’s Experimental Group non è dunque lo snaturamento di Battiato, non è il forzato delirio di un anziano fuori tempo massimo.
È il sereno e gradito ritorno alle origini di un genio in pace con se stesso.

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