Ottava produzione per il poliedrico Dave Grohl da quando, a metà dei turbolenti anni ’90, decise di non farsi prendere dallo sconforto per l’amaro quanto noto epilogo dell’esperienza Nirvana, andando a reinventarsi front-man di una delle band che ha avuto più successo negli ultimi vent’anni. L’azzardo di alzarsi dallo sgabello della batteria per andare a posizionarsi nella primissima fila, non gli ha solamente fruttato molta più figa, ma ha anzi evidenziato le sue ottime qualità come cantante e chitarrista, ottime se contestualizzate in una realtà musicale che richiedeva un passaggio ad un genere più “soft” per certi versi, ma che riuscisse ancora a scaldare il cuore degli irriducibili amanti del Rock&Roll. Cosa è cambiato rispetto al 1995? Non molto a dire il vero, e questo è un dato che può essere letto in molteplici maniere. Che non sia cambiato molto lo apprendiamo dall’inconfondibile sound che accompagna Sonic Highways, su cui mi soffermerò in seguito, dalla spiccata ed innata abilità di Dave di sapersi calare nella parte dell’attore comico (storici i suoi video musicali) e da una presenza tanto onorevole quanto ambiziosa dietro le quinte, ovvero proprio quel Butch Vig che ventitré anni fa produsse Nevermind, figuraa dire il vero sempre presente nella carriera di Dave Grohl.

Sonic Highways  si presenta con una copertina futurista rappresentante i più celebri elementi delle metropoli americane, probabilmente un riferimento agli otto diversi studi di registrazione che ne hanno visto la realizzazione, in ogni caso una copertina non indimenticabile. Muovendo da alcune recenti dichiarazioni del leader della band, ben si intende l’assenza quasi totale di elementi non appartenenti al rock convenzionale in tutta la produzione: il Grohl-pensiero critica infatti l’utilizzo dei computer, rei di averci allontanato dal contatto umano, e traslando questo filone in musica ci hanno fatto scordare cosa voglia dire fare rock. Ad aprire le danze ci pensa Something From Nothing con un ossessivo e distorto riff di chitarra controbilanciato da un basso funky sul cui sfondo si stagliano urli e graffi vocali. Già con la seguente The Feast And The Famine comincia a maturare una convinzione, che si concretizzerà sempre più allo scorrere delle tracce; i Foo Fighters non sanno più inventare niente di diverso dal copione intro-verse-prechorus-chorus-(solo)-happy ending, una costruzione ormai obsoleta. E così i 42 minuti scorrono tra le accattivanti corde di Congregation e la duplice What Did I Do? God As My Witness,  giovanile prima e romantica poi. Outside non sembra rientrare tra i canoni di quest’ultima opera per il suo sound più cupo, più tirato, meno aggraziato: è quello che avremmo voluto fosse tutto Sonic Highways. Questa linea appunto viene persa con In The Clear in cui si abusa nell’utilizzo di power-cord e contro riff, andando ancora una volta a creare un qualcosa di, per certi versi, ruffiano. C’è spazio infine per la graziosa ballata semiacustica, Subterranean, e per la summa artistica I Am A River contenente un po’ tutto quanto detto in precedenza.

Che dire dunque, resta difficile parlare male di un personaggio come Dave Grohl, un personaggio che ha appassionato moltissimi negli anni ’90 e che da lì non si è più smosso, quasi il mondo fosse rimasto all’epoca degli Star Tac e delle Crystal Ball. Una grande fetta dei suoi proseliti sarà sicuramente contenta dello status quo da cui il gruppo sembra non volere muovere, ma se pensiamo alle capacità che Grohl ci ha mostrato, dalla fine degli anni ’80 ad ora, non possiamo che storcere la bocca per un album che odora di mero compitino. Peccato.

Tracce consigliate: Outside