In un 2008 che la maggior parte di noi ricorda per 808s & Heartbreak di Kanye West, Vampire Weekend e Saturdays = Youth degli M83 usciva anche Fleet Foxes, un instant classic di folk purissimo, alieno al mood imperante e a qualsiasi trend, che avrebbe portato la band di Robin Pecknold alla consacrazione giusto prima che il nu-folk più abietto cominciasse a riempire le classifiche e gli stadi di mezzo mondo. La formula Fleet Foxes, fatta di armonie bucoliche sublimi, stratificazioni via via più intricate, vocalità quasi barocche e una scrittura a fuoco e minimale è alla base anche dei successivi Helplessness Blues (2011) e Crack Up (2017), album dalle gestazioni lunghe e complesse ripagate da un successo pressoché unanime. Da mesi ormai i teaser su Instagram facevano pensare ad un ritorno della band di Seattle, che come data d’uscita di Shore ha pensato bene di scegliere l’equinozio d’autunno: grande mossa di auto-consapevolezza per un gruppo che è diventato l’emblema della stagione fredda più del Pumpking Spice Latte di Starbucks.

Incredibilmente coeso, solido, caldo e con ritornelli “esplosivi” a cui mai siamo stati abituati con i Fleet Foxes – complice anche la batteria di Christopher Bear dei Grizzly Bear, che suona in quasi tutti i pezzi – Shore è l’album più diretto e upbeat della band, lontano dalla densità sonora dal sapore quasi progressive che aveva reso Crack Up un album difficile da maneggiare e a cui avvicinarsi con timore reverenziale. É sempre un lavoraccio spacchettare un album dei Fleet Foxes, perché anche Shore andrebbe ascoltato ogni volta da capo a piedi, con attenzione e vissuto come un’esperienza immersiva. E questo perché è un disco capace, se lasciato fare, di prendersi il suo spazio fisico, di aggiustare l’anima e confortare il cuore.

La prima metà dell’album scorre che è un piacere: Sunblind è l’omaggio solare, poetico e groovy di Pecknold al potere curativo della musica e ad amici musicisti/numi tutelari ormai scomparsi, da Elliott Smith a Richard Swift fino a David Berman e John Prine, ma chitarre e percussioni dirompenti la fanno da padrone anche nelle successive Can I Believe You e nell’inno all’attivismo Jara, uno dei pezzi più intensi di tutto il disco. L’atmosfera si placa a partire dalla dolcissima Featherweight, impreziosita dalle note svolazzanti di pianoforte e che contiene un verso che è anche una preghiera laica da ripetere almeno fino allo scoccare del 2021:

“May the last long year be forgiven / All that war left within it / I couldn’t, though I’m beginning to”

La seconda metà del disco è più vicina ai Fleet Foxes che conosciamo, meno pop e più atmosferici e pieni di dettagli infinitesimali: ci sono la classica folk ballad da coperta e caminetto I’m Not My Season (che vince a mani basse il premio “titolo più poetico dell’anno”), c’è l’estensione vocale di Pecknold che fa quello che vuole nella meravigliosa Maestranza e c’è la linea di basso irresistibile di Quiet Air / Gioia, la canzone sul cambiamento climatico che non ci meritiamo ma di cui avevamo bisogno.

Shore non è sicuramente il disco che ci si aspettava dai Fleet Foxes nel 2020, anzi. In un clima globale più mesto che mai da tutti i punti di vista avrei scommesso decisamente su un Crack Up “Volume 2”, un altro album cupo, politico, pieno di pezzi frammentati lunghi dieci minuti e composti da cinquanta parti, insomma un album più specchio dei tempi. E invece Robin Pecknold tira fuori dal cilindro – con l’aiuto di un plateau di musicisti notevole, da Kevin Morby a Hamilton Leithauser a Michael Bloch degli Here We Go Magic – un album accessibile ma non moscio, minuziosamente prodotto ma non patinato e soprattutto fatto di canzoni meno sperimentali e più strutturate nel tradizionale strofa/ritornello/bridge senza per questo perdere di credibilità o risultare meno interessante. Un album a cui tornare e ritornare come una coperta di Linus, in questi tempi bui.