Succede quasi sempre che i ritorni artistici a lungo attesi si traducano in due diversi tipi di reazione da parte del pubblico, dividendo a metà lo zoccolo duro dei seguaci. I nostalgici in cerca del sound di cui si sono innamorati in passato si contrappongono agli altri, quelli che bramano sorprese ed evoluzioni. Alla fine della storia per entrambe le fazioni la parte divertente sta nello scannarsi dopo l’uscita del disco che sancisce il ritorno, che inevitabilmente scontenta una delle due. Poco importa quale, l’importante è che ci siano i presupposti per aprire il dibattito, tirando in ballo ogni sega mentale disponibile a supporto della propria tesi e rispolverando tutti i dualismi irrisolti della storia: identità / creatività, coerenza / sperimentazione, Rihanna / Taylor Swift, ferie al mare / ferie in montagna, col calzino / senza calzino.

Su come sarebbe stato il settimo album targato Faith No More c’è stato modo di fantasticare per ben diciotto anni. Alla resa dei conti viene fuori che Sol Invictus suona esattamente come c’era da immaginarsi, coi californiani che riprendono il discorso laddove lo avevano interrotto vent’anni fa. Sono almeno due i motivi evidenti per cui la cosa non desta meraviglia. Il primo è legato al fatto che tra le prerogative delle produzioni a marchio FNM non c’è mai stata la ricerca di un sound in linea coi tempi (anzi, in molti casi il processo compositivo si è mosso esattamente con l’intento opposto). L’altro è da ricercarsi nel deus ex machina Mike Patton, uno abituato a togliersi ogni sfizio in quanto a sperimentazione, con così tanti progetti paralleli da averci l’imbarazzo della scelta se le necessità espressive fossero state diverse da quelle che hanno condotto alla genesi di Sol Invictus.

Se è vero che c’è poco da rimanere sorpresi, è altrettanto vero che ciò non esclude la possibilità di rimanere delusi. Se la materia prima continua ad essere lo schizofrenico crossover che ne decretò il successo, il contorno è inevitabilmente cambiato. Quell’impasto incredibilmente omogeneo di metallo e ritmi mediterranei, tracciati hip-hop e tendenze operistiche, opulenza e orecchiabilità, rimescolò le carte in tavola nel momento in cui le uniche strade possibili sembravano essere il grunge e il metal, ma il panorama odierno è ormai così abituato alle ibridazioni che a stare a sentire i Faith No More di oggi si finisce per produrre qualche sospiro nostalgico di troppo. Cone of Shame è un pregevole mix di atmosfere western e ruggiti hardcore ma a conti fatti è un viaggio nel 1995 di King For A Day, piano e riff di Matador sono un pallido saggio di ciò che fu Angel Dust, e in molti episodi pesa anche l’esperienza di Patton nei Tomahawk, come in Separation Anxiety.
Mike caro, l’hai confezionato per bene ma da uno come te ci aspettavamo molto più di un sommesso esercizio di stile.

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