È ottobre: nell’aria si inizia a respirare quel profumo di morte che di qui a breve coprirà i viali alberati di un frusciante tappeto color vermiglio, ruggine, ambra. L’ultimo bagno della stagione probabilmente lo avete tutti fatto da un bel pezzo e la coppia asciugamano + mojito (ugh, che pessimi gusti avete) ha lasciato il posto agli amati testi universitari.
È ottobre, Erlend Øye, capito? Probabilmente no, non lo ha capito. O forse ha avuto un colpo di genio a fine luglio e ha iniziato a produrre come un forsennato sperando che magari per fine agosto… no, niente da fare. Non ce l’ha fatta.
Erlend Øye, la metà occhialuta di quei Kings of Convenience latitanti ormai da anni, ha fatto un disco che si chiama Legao e che vive idealmente fra le spiagge brasiliane, località tropicali, la Thailandia, immagino, visto che vedo spuntare delle pagode in allegra eresia insieme al Cristo di Rio.
Legao è stato registrato in Islanda, perché la natìa Norvegia forse era troppo calda. Ok. Legao è stato registrato con l’ausilio della band reggae islandese Hjálmar: tutto questo pot-pourri, reggae & musica d’ispirazione tropicale + Islanda è qualcosa che mi suscita un riso spontaneo, quasi infantile. Ho trattato in più di un’occasione l’evento di un artista che parla mediante la sua musica e i suoi testi di una realtà lontana da dove sta componendo ma che evidentemente sente vicina al cuore. Non voglio partire prevenuto solo a causa di quanto male questo album si presenti con una copertina veramente brutta brutta brutta dalla quale risparmio solo i delfini perché voglio bene agli animali.

Gli amici Hjálmar fanno fin da subito il loro intervento su Fence Me In, un pop reggae da manuale (nel senso che più stereotipato di così si muore, mancano giusto le invocazioni a Jah e alle piante profumate). L’accenno di diversità è quello della voce del roscio che saltella sul ritmo invece di aggredirlo come farebbe il bieco rastamanno di turno. Garota cambia territorio, aggiunge una tromba e se non conoscessimo il contesto la potremmo definire come una classica canzone indie pop occidentale con ritmiche che ammiccano ad altri lidi: il ritornello vi ammicca pesantemente a dire la verità ma è comunque un passo in avanti rispetto all’apertura. Piccolo però, il passo. Passo che giustamente viene subito fatto all’indietro con Say Goodbye: la musica è un altro compitino irritante tratto da Il mio primo libro di composizioni reggae.  Via così anche Peng Pong (Peng Pong… ? Vabbè) e sulla stessa scia anche una fetta troppo consistente di quello che rimane da sentire.

Si salvicchia Rainman, altro singolo con un video, credo, piuttosto innovativo e carino, del quale si finiscono per apprezzare i disegni colorati a tempera e tutto animato secondo la tecnica del rotoscoping. Anche qui l’idea di decenza è tenuta in piedi da una composizione ibrida, con poco spazio al sole dei Caraibi e più brezza nordeuropea. Si salvano, ripeto perfino, si salvano Bad Guy Now che sembra un brano mai ascoltato da un LP della nave madre KoC e Who Do You Report to? per voce e piano. Ma passare con la sufficienza o anche qualcosa di più una manciata scarsa di brani non può far dimenticare il tedio del resto dell’ascolto. Non si tratta di bastonare per divertimento delle composizioni semplici ed essenziali ma almeno capaci di fare breccia, si tratta di bastonare con giusta severità un album che passa e va senza colpire, lasciando anzi, una fastidiosa irritazione.
Ragazze indy romanticissime che si scioglievano a sentire I’d Rather Dance with You, parliamo della questione testi? Le tematiche sono le stesse toccate da anni di carriera: sole, cuore, amore. Forse non gli è rimasto molto da dire sugli argomenti succitati, più probabile che sia la generale noia dell’album che abbatte anche la poetica del cantautore. Con musica migliore avremmo considerato con maggiore benevolenza anche le lyrics.
Forse forse questo Legao meravigliao (mica tanto) ce lo potevamo veramente evitare, vero Erlend?

Traccia consigliata: Bad Guy Now.