Gli Electric Wizard hanno sempre avuto qualcosa in più rispetto al resto della scena stoner/doom, tutta carica il bong > componi musica > vomita > svieni > componi musica > ricarica il bong. Questo qualcosa in più forse è da ricercarsi nella mente tutto tranne che lucida ma mostruosamente creativa di Jus Osborn, mastermind del gruppo e collante di un’avventura maledetta che va avanti da vent’anni con nomi diversi dietro gli strumenti. Da vent’anni tra gli eredi più famosi, se non perfino i migliori, dei primigeni Black Sabbath mietono vittime a colpi di riff tritaossa e suggestioni cupissime.
Ne sono passati quattro, di anni, da Black Masses, album che da un lato aveva visto una produzione pesante e caotica, dall’altro una maggiore pulizia nelle vocals, un uso più ampio dei cori. Non che questo abbia significato rendere la loro musica più accessibile ma aveva attirato qualche critica al riguardo da parte dei puristi e di chi ritenne di trovarsi per le mani un album poco curato, frettoloso. Nel frattempo, tra
Time to Die, disgustata dichiarazione di odio antiumano rivolto contro se stessi in primis, non vuole lasciare spazio a fraintendimenti. Nelle parole stesse dei membri del gruppo la genesi di questo ottavo album è stata quanto di più vicino al collasso psicologico e fisico. Succede, quando la materia con la quale si lavora è l’equivalente sonoro del piombo fuso, incandescente e velenosa. Eppure eccolo, con la sua spaventosa farfalla in copertina, ecco Time to Die, il più lungo album mai creato dalla band, nove tracce che rispolverano quanto di più buio dei magnifici anni 7o. Ciliegina sulla torta, l’ispirazione che lo anima si basa sulla storia personale dell’omicida teenger, Ricky Kasso.

Lo scrosciare dell’acqua viene raggiunto da una voce campionata (da quel poco che riesco a capire) da una notizia al telegiornale sulla morte di Kasso, suicida in cella: si apre con questi propositi Incense for the Damned. L’incenso altro non è che la marijuana, panacea al male di vivere che permette al narratore (molto verosimilmente anche autobiografico di Osborn & compagni) di non curarsi del resto del genere umano mentre questi cerca di recuperarlo a livelli materiali High up here I don’t need to take your shit / You people try to bring us down / But soon you’ll all be chocking on / Incense for the Damned. Fra la lenta marcia iniziale a base di batteria incalzante, rallentamenti da brivido e ripartenze opprimenti si consumano i primi undici minuti di tragedia; è sparita qualsiasi idea di pulizia sulla traccia vocale che ora invece urla da luoghi remoti, paludi malsane e irraggiungibili se non viaggiando con la mente. Time to Die parte con un giro di chitarra debitore di Steppenwolf, Hawkwind e tutta il peggiore (e quindi migliore) rock rumoroso e psichedelico che forse i vostri papà hanno in vinile e che probabilmente dovreste andare ad ascoltarvi. Il basso viene malmenato senza sosta, a volte nascosto dalla sei corde ma mai messo in secondo piano grazie ad una produzione che ne valorizza la presenza. Un’ultima sosta, si prende l’ultimo fiato prima di toccare il picco della distorsione in un’esplosiva jam session.
I Am Nothing è un monolite scalfito solo inizialmente dalle aperture di libertà concesse alle chitarre che, invece che galoppare, si chiudono a cerchio e inventano una spirale che non vede fine, nella quale far precipitare il cervello, una pennata dopo l’altra. La torre di fumo nero degli Electric Wizard cresce verso l’alto a velocità esponenziale, trascinata da un reparto strumentale impazzito al quale la voce di Osborn lascia campo aperto per sfogarsi fino all’inevitabile collasso. Destroy Those Who Love God funge da intermezzo non particolarmente interessante, di nuovo campionamenti vocali da servizi televisivi e caciara a contendersi l’orecchio.
La cavalcata verso un dirupo spinta dalla poderosa sezione ritmica in Funeral of Your Mind si conferma forse come brano più accessibile e quasi (gulp!) catchy, tiratissima all’inizio e lentamente frenata nella seconda metà con le chitarre che iniziano a stridere incontrollabili. Pinnacolo della funerea espressività doom è invece We Love the Dead, ripetitiva fino allo stremo, ossessiva e ossessionante quanto un terribile sogno dal quale non ci si riesce a svegliare. I minuti sono solo nove ma l’andamento è talmente pachidermico da farli sembrare molti di più, scanditi da proclami necrofili, I creep amongst the graves and crypts / I love the dead, the living make me sick.
Un’altra prova sulla breve durata non degna di grande apprezzamento è Sadiowitch che quantomeno ci traghetta alla coppia finale: ancora acidissime, malatissime atmosfere settantiane e occultismo, droga, malefiche sette in Lucifer’s Slaves per poi mettere la parola fine all’ascolto sulle note di organo di Saturn Dethroned, un interessante quanto inaspettato tributo alle atmosfere di certo cinema europeo di qualche decennio fa (dico Dario Argento così capite tutti). In realtà la vera chiusura arriva con una citazione da uno show televisivo sul satanismo, la stessa che apriva Dopethrone ma con una spiacevole novità tagliata in passato: “When you get into one of these groups, there’s only a couple ways you can get out. One is death, the other is mental institution… or third, you can’t get out.

Il rito aberrante è stato officiato. È tempo di crepare, bastardi.

Tracce consigliate: Incense of the Damned, Funeral of Your Mind.