Gli Egyptian Hip Hop sono un quartetto proveniente da Greater Manchester, nato nel 2008. Prendendosela molto con calma, nel 2010 fanno uscire il loro primo EP, Some Reptiles Grow Wings, che fa innamorare parecchie persone, dimostrando un’abilità e creatività fuori dal comune vista la loro età, al tempo nemmeno sufficiente per comprare della birra in modo legale. Poi, il vuoto.
Arriva il fatidico anno 2012. Forse sono stati spaventati dalle profezie Maya e si sono decisi che o adesso o mai più, forse più semplicemente volevano essere certi che il loro album d’esordio fosse curato nei minimi particolari. Prima esce Misc.Disc., disco solista del frontman che si fa chiamare Aldous R.H. intriso nel midollo da sperimentazioni elettronicheggianti, poi a qualche mese di distanza finalmente arriva nelle nostre case anche Good Don’t Sleep, attesissima prova del nove dei nostri ormai uomini.
La voce vira verso tonalità più cupe, quasi tutto è avvolto da un alone mistico. Si sente che gli anni passano, le influenze non sono più le stesse e la spensieratezza che li contraddistingueva prende una forma più definita, più matura, il che non è per forza un bene.
La prima metà dell’album scorre che è un piacere: si parte con Tobago e il suo loop di chitarra perpetuo, per poi passare nei pezzi seguenti a sintetizzatori spalmati in atmosfere molto sognanti e ben orchestrate, dove spicca sicuramente Yoro Diallo, il ritmo quasi tribale ed il riff di chitarra che fa venir voglia di ondeggiare. Con Strange Vale si inizia a rallentare, la psichedelia dei synth emerge dal basso, mettendo in evidenza la parte prog-rock accennata nelle tracce precedenti che caratterizzerà il resto dell’album. E fin qua assolutamente tutto bene.
Poi arrivano Snake Lane West Pearl Sound e ti chiedi: perchè? Perchè fate questo, EHH? Incolori, insapori. La voce diventa una lagna senza via d’uscita, si perdono in un progressive che sa molto di ambient ma che non è né l’uno né l’altro. Finalmente ne usciamo e ci troviamo davanti SYH, il primo singolo dell’album, che ci fa assaggiare di nuovo un bel sintetizzatore deciso nell’essere catchy, percussioni primordiali e la voce esce dal vortice di morbosità irritante in cui era finita. E’ il riscatto che volevamo. Tutto inutile ovviamente se poi ci ricascano, dato che delle quattro tracce finali se ne salvano la metà.
Iltoise e la finale John Baker forniscono ottimi spunti: la prima sono sofficissimi e dolci melodie che si sovrappongono; la seconda fa vedere cos’è che volevano fare veramente delle canzoni poco riuscite: intrighi sperimentali liberati da una voce fin troppo stucchevole da ascoltare per tutto il tempo di durata del disco.
I quattro ragazzi di Manchester ci fanno vedere bellissime cose, ma troppo spesso ricadono in sperimentalismo fine a sè stesso, esagerando e perdendosi nel nulla. Ed è veramente un peccato.
Sono comunque promossi, ma non nel modo trionfante che tutti ci aspettavamo.