Approdato nel mondo delle major con Almanacco del Giorno Prima nel 2014, ecco che appena due anni dopo Dente saluta RCA e Sony. Ma che fine ha fatto il cliché dell’artista indipendente che non vede l’ora di mandare a cagare il circuito underground e tutta la sua autoreferenzialità?

Quella di Canzoni Per Metà, nel bene e nel male, è una retromarcia sotto tutti gli aspetti. Oggettivamente lo è da un punto di vista pratico, perchè in sostanza si torna all’autoproduzione (l’etichetta Pastiglie è dello stesso Dente) e perchè è innegabile che le tracce dell’album di Giuseppe Peveri evochino il suo esordio (Anice in Bocca, 2006). È una storia che vorrebbe sembrare quella del cantautore che per necessità espressive si mette in proprio, ma i conti non tornano, perchè anche stavolta è una mossa fatta a metà. Col suo concept, che in fin dei conti era ispirato e coerente, Almanacco del Giorno Prima aveva tentato di collocarsi entro le vicende del cantautorato italiano che da De Andrè e Battisti passa per Lucio Dalla e giunge ad oggi, malamente, senza aggiungere elementi significativi al filone. Oggi Canzoni Per Metà conferma che per Dente l’introspezione lo-fi da cameretta è la dimensione più adeguata, quantomeno perchè gli consente di esprimersi autonomamente. Resta però il fatto che da Anice in Bocca sono trascorsi dieci anni: se l’estemporaneità si perdona agli esordienti – anzi, spesso è quello a cui ci si affeziona – in genere a quella dei quarantenni si fa una certa fatica a credere. Insomma, più che un ritorno alla genuinità delle origini sembra un “ritorno a casa perchè non so dove minchia andare” dissimulato male.

Non è facile ritracciare spontaneità quando l’enfasi è tutta sugli ingredienti DIY. All’inverso, tutto finisce per suonare artefatto se le canzoni sono deliberatamente “per metà”, in un disco che ne contiene ben venti, a fronte di un ascolto complessivo che dura meno di 45 minuti, e l’incompiutezza di tracce che sfumano dopo poche decine di secondi quasi mai è legittimata da esiti emozionali.
La strumentazione scarna – chitarra acustica onnipresente, qualche synth, il vezzo vintage di un Omnichord – non è bilanciata sul fronte delle liriche che, quando non sono striminzite (Se non lo sai, Il padre di mio figlio, Noi e il mattino) o ridotte a un unica frase in loop (Attacco e Fuga) ma senza la forza poetica che hanno le sintesi riuscite ne’ il fascino dell’ingenuità delle filastrocche, sono castrate da linee vocali al confine della monotonia (Geometria sentimentale, Come Eravamo). Un paio di episodi dalla struttura meno prevedibile rispetto agli altri (Ogni tanto torna, Le facce che facevi) non bastano a portare a casa il risultato.

Un lavoro che piacerà ai seguaci della prima ora? Boh. Forse c’è il rischio che negli ultimi dieci anni abbiano imparato ad apprezzare le canzoni intere.

Tracce consigliate: Ogni tanto torna