“No one knows what is happening. There is a lot of danger out there. Ok?”

Con queste poche parole si apre Heat Death Infinity Splitter, traccia introduttiva del sesto album in studio dei 65DOS.
La band, che già da We’re Exploding Anyway aveva iniziato a dare meno spazio agli strumenti legnosi a favore di synth e altre diavolerie a base di silicio, con Wild Light completa la transizione che, dal post-rock dopato dei primi lavori, l’ha portata al massiccio ed intelligente uso dell’elettronica di questo nuovo album.

Nella prima traccia le intricate ritmiche a cui ci ha abituati il batterista Rob Jones latitano e sarà così per buona parte dell’album anche se il pathos derivante dai paddoni e i muri di synth non ci fanno rimpiangere questa scelta.
In Prisms, traccia che ha anticipato l’album, possiamo sentire dei suoni che strizzano l’occhio ai lead ad alto tenore di frequenze altissime del duo canadese Crystal Castles ed è assidua la presenza di ritmiche ad hihat chiuso di derivazione trap che dal duemiladodici sono iperpresenti nelle produzioni gangsta; si sfuma verso qualcosa di più “suonato” rimanendo però in ambiente prettamente elettronico.
Con The Undertow veniamo avvolti da un crescendo decisamente post-rock per poi calare prima dell’arrivo del super groove di Blackspots, traccia che mi ha fatto implodere in un vortice emotivo tagliato da un paio di pause che mi hanno lasciato giusto un attimo per prendere fiato prima di riportarmi nel baratro da cui si risale lentamente, aspettando il vero botto finale, che non arriverà benchè l’intensità sia altissima.
Sleepwalk City riprende la precedente traccia ma è in Taipei dove i 65DOS tornano a One Time For All Time con un 5/4 suonato quasi tutto alla vecchia maniera con poche incursioni elettroniche che riempiono le poche frequenze tralasciate dagli strumentisti.
Unmake the Wild Light continua il trend di Taipei con un 7/4 che mi ha steso al pari dei muri elettronici che spezzano la canzone e con un crescendo finale sfumato in noise da brividini. L’album si conclude con Safe Passage, altro pezzo in tempi dispari, che dopo averci cullato un po’ ci catapulta nel cyberspazio più distorto di sempre.  Si, c’è anche una bonus track ma, benché valida, c’entra poco con il resto dell’album che per me finisce con lo stoppato della traccia numero otto.

Wild Light è intelligente, maturo e mette ben in mostra la voglia del quartetto di Sheffield di innovare ed evadere dai rassicuranti canoni del post-rock.

Tracce consigliates: Taipei, Blackspots