É stato un risveglio orribile, l’ennesimo. Pare che il 2016 non voglia fermare questa ecatombe di grandi artisti che era inizata sul finire dello scorso anno.
Ma mai come in questa occasione la morte di un personaggio celebre, a noi caro, a noi vicino pur nella sua lontananza, ci ha lasciati talmente interdetti, storditi, esterrefatti. In questi giorni ne stavamo decantando le lodi sui social, con gli amici, se ne invocava in massa il ritorno sui palcoscenici (abbandonati definitivamente nel 2006), la sua capacità di portare a scuola tanti suoi colleghi contemporanei e ben più giovani ci aveva fornito sufficienti garanzie sul suo stato di salute: David Bowie artisticamente era in formissima, Blackstar ci appariva come l’ennesima nuova fase della sua luminosa e variopinta carriera, una sinusoide impazzita capace di abbracciare generi, movimenti e arti con una naturalezza quasi unica, innata. Questa recensione è stata scritta sette giorni fa e l’uscita era programmata per la giornata di oggi, ma il corso degli eventi ci induce a questa dovuta preliminare riflessione. David e i suoi compagni di lavoro, a cominciare dal fratello artistico Visconti, erano consapevoli della malattia, erano consci del fatto che avrebbe potuto andarsene da un momento all’altro e quella grande ambiguità semantica di fondo che languiva tutto l’album ad oggi è stata, purtroppo, svelata: Blackstar è il testamento musicale lasciatoci dall’artista londinese.
Così, nella discrezione nell’annuncio da parte dei familiari, nel riserbo mantenuto sino agli ultimi istanti della sua vita, dimostrando un’essenzialità in perfetta antitesi con la magniloquenza della sua Arte, proprio quando i pensieri sono rivolti alla fugacità della vita, Bowie ci dimostra che si può essere immortali.
“I’ll be free
Just like that bluebird
Now ain’t that just like me?
Oh I’ll be free
Just like that bluebird
Oh I’ll be free
Ain’t that just like me?“
Non cambia mai, neanche di una virgola, da quasi cinquant’anni, eppure le sue innate doti camaleontiche gli sono riconosciute anche dai suoi più accaniti detrattori. Prima dandy decadente e androgino, poi Ziggy Stardust, passando dall’austero berlinese al celebre Duca Bianco, fino ad arrivare ai nostri giorni, David Bowie ha reso palese l’abilità del musicista di riconfigurare la canzone non solo come un prodotto di consumo, sdoganandola dal suo tradizionale formato ed estendendo lo spettacolo all’estetica, alla letteratura, all’abbigliamento, fatto che oggi sembra abbastanza scontato, ma che all’epoca non lo era affatto. Al contempo definire l’artista britannico come un navigato esperto di marketing appare fuorviante: Bowie ha sempre abbracciato le avanguardie, vaticinando sempre con estremo gusto i movimenti musicali e reinterpretandoli a modo suo. Del resto è stato uno dei primi a “scoprire” gli Arcade Fire, quando ancora erano poco noti al grande pubblico e ha recentemente citato To Pimp A Butterfly (uno dei pochi album di quest’anno a riscuotere consensi unanimi dalla critica) come fonte d’ispirazione. Se tre anni orsono aveva stupito tutti, annunciando a sopresa The Next Day, l’uscita di Blackstar era nota a tutti da mesi e condivide con il predecessore la release date, l’8 Gennaio, data di nascita del cantante. Ho cercato il sostantivo “blackstar” su qualche enciclopedia italo-inglese e sono emersi vari significati; ci sono riferimenti a Saturno, a corpi celesti simili ai buchi neri ma privi di orizzonti degli eventi e alla nana nera, ultimo ipotetico stadio della vita di una stella: è evidente come le fascinazioni di Bowie per lo spazio, l’ambiguità e la polisemia siano ancora vivissime. L’artwork è stato affidato nuovamente a Jonathan Barnbrook, autore della copertina-virale di The Next Day, che ha voluto conferire un’immagine semplice, ben poco kitsch e allo stesso identificabile con i contenuti dell’album e lo status del suo protagonista (peraltro è la prima cover dove non figura l’immagine di Bowie).
La genesi di questo lavoro è stata diversa dal solito, grazie all’incontro (suggerito da Maria Schneider, nota compositrice e musicista jazz) tra David e il sassofonista Danny McCaslin, avvenuto al 55 Bar di New York; il Duca rimane colpito dal nervosismo frenetico del modern jazz e il giorno successivo da avvio a uno scambio epistolare di demo, che si concluderà nell’EP, Sue (Or In A Season Of Crime), pubblicato durante lo scorso Record Store Day e contenente i prodromi di quello che diventerà il suo venticinquesimo album. Poche settimane dopo arriva una chiamata al compagno (musicale) di una vita di Bowie, Tony Visconti: ”Sono pronto”, il resto dovrebbe essere noto. I lavori in studio sono andati piuttosto velocemente e in pochi take, ma a singhiozzo a causa degli impegni paralleli di Broadway. David viene descritto dalla live band di McCaslin come un perfezionista, tanto meticoloso nella dedizione quanto democratico nel lasciare spazio alla verve dei suoi musicisti, uno dei pochi artisti capace di mettere completamente al servizio della musica persino i sessionman più tecnici e virtuosi.
Il risultato non è l’album jazz inaccessibile tanto strombazzato dai media: se da un lato è verissimo che Blackstar necessita di più di un ascolto per essere apprezzato e compreso appieno, nei sette brani non scorgiamo autoreferenzialità. La title-track, accompagnata da un video quasi apocalittico, è una maratona ambient di quasi dieci minuti dalle tinte arabeggianti e dalla cadenza spettrale; la voce di Bowie è calda, s’incastra alla perfezione nell’arrangiamento orchestrale da lui stesso creato, sembra di ascoltare un brano di Scott Walker reinterpretato dal nostro, che canta “I’m not a film star, I’m not a pop star, I’m a black star” quasi a voler rispondere ironicamente a chi già lo vedeva adagiarsi sul viale del tramonto. Potrebbe bastare tutto ciò a ribadire quanto per Bowie l’essere barocco non sia puro esercizio di stile, la magniloquenza è infatti l’unico modo che ha per esprimersi in maniera compiuta. ‘Tis A Pity She Was A Whore e Sue (Or In A Season Of Crime) entrambe già presenti nell’omonimo singolo, sono state registrate nuovamente con la band di McCaslin. La prima traccia è stata sgrezzata notevolmente, pur non perdendo il piglio quasi industrial grazie al beat sincopato e ossessivo di Mark Guiliana, in un crescendo scandito dal sax tenore e dalla violenza del testo: “She Punched me like a dude, hold your mad hads, I cried […] This is the war”. Sue, oltre a essere stata accorciata di quasi tre minuti rispetto all’originale, suona decisamente più distorta e aggressiva, la chitarra di Monder è sempre in prima linea, la sezione ritmica accompagna con un ritmo quasi drum’n’bass; questa nuova veemenza si sposa certamente meglio con il pathos del testo: “Sue[…] I kissed your face, I found your note, you went with him. Sue, I never dreamt, I’m such a fool”.
Profumo di Berlino si ode in I Can’t Give You Everything Away, con quell’armonica che tanto ricorda il sound di A New Career In A New Town, del resto alla produzione c’è Visconti e si sente; nel finale l’unico solo di Monder emerge da una nebulosa di archi, mentre Bowie si confessa all’ascoltatore “ Saying no, meaning yes, that’s all I ever meant, this is the message that I sent” . In Blackstar non mancano i brani meno impegnativi, Lazarus, di cui dovrebbe essere il “singolo”, è stato scritto originariamente per la colonna sonora dell’omonimo musical diretto dal poliedrico compositore britannico, una sorta di sequel de The Man Who Fell To Earth (che vide lo stesso Bowie protagonista nella versione cinematografica di Roeg). Con un intro di chitarra post-punk, un groove accattivante, Lazarus possiede un’intensità emotiva da groppo in gola sui livelli (alti) del repertorio di Bowie, il cui acme viene raggiunto durante lo straziante ritornello . Un’altra citazione letteraria è presente nella nervosa Girl Loves Me, dove viene utilizzato il linguaggio Polari, simile al Nadsat, un misto di russo, inglese e vocaboli shakespeariani, presente in A Clockwork Orange, capolavoro di Burgess (citato nella famosa lista dei suoi cento libri preferiti). Del resto Bowie aveva già attinto dall’immaginario del romanzo nel periodo Ziggy , aprendo i suoi show con la versione Moog della Nona di Beethoven dal celebre rifacimento cinematografico di Kubrick, sino a citare nei testi e nel vestiario il mondo dei drughi. Infine impreziosisce la seconda metà dell’album, la ballata Dollar Days, non scevra di implicazioni autobiografiche, chiusa dall’influocato sax di McCaslin.
A differenza di The Next Day, gradevole ritorno alle scene dell’artista londinese dopo un’assenza dalle durata dieci anni, Blackstar rappresenta l’ennesimo punto di rottura e trasformazione della sua decennale carriera. Pur non essendo organico nei testi ed essendo stato registrato attingendo da più fonti, il trait d’union dell’album va sicuramente ricercato nel sound, nella capacità di ottenere un approccio rock da musicisti provenienti da background musicali eterogenei, nell’abilità inedita di Bowie di scrivere orchestrazioni per fiati, semplici ma efficaci; co-protagonisti di questo successo sono McCaslin e Visconti. Seguendo il vecchio assunto secondo il quale l’artista è l’unico vero contemporaneo, in quanto meno soggetto alle tentazioni tecnologiche del presente, si può dire che l’artista è “bowiano” per definizione: David non segue le mode, piuttosto le impone.
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