Ci sono artisti ammaliati da generi diametralmente opposti che però non se ne fanno un cruccio. Basta guardare cosa combina uno come John Grant, perennemente indeciso tra morbidezza melodica e loudness elettronica, quando è ora di conciliare i suoi istinti e ficcarli in un disco.
Birth è figlio della stessa fertile attitudine. Nei miei sogni ho incontrato Satie e l’ho portato a ballare al Berghain: così Dario Faini aka Dardust nel narrare la transizione dal sound etereo dell’esordio al dualismo inquieto di questo secondo album, confezionato in uno studio di Reykjavik che ha ospitato tra gli altri anche i Sigur Rós.
L’Islanda sembrerebbe il posto ideale in cui rintanarsi per dar seguito alle composizioni docili e minimaliste di 7, il debut di Dardust dello scorso anno registrato a Berlino. La permanenza sull’isola non ha avuto però l’effetto che ci si sarebbe aspettati e il pianoforte di Faini, che finora aveva osato solo danzare tra timidi beat, si è arreso definitivamente a synth e drumming del co-produttore Vanni Casagrande. Pare non si tratti però di un’infatuazione momentanea ma bensì di un progetto a lungo termine, una conversione consapevole dal neoclassico al sintetico articolata in tre capitoli, che fissa già le coordinate per il prossimo lavoro in studio.

Birth non somiglia alla superficie dell’Islanda ma scalpita come il suo sottosuolo. La componente elettronica è un geyser che a un tratto esplode e frantuma le trame melodiche. Il contrasto è benefico per entrambe le parti, con le armonizzazioni che evitano di inciampare nello stucchevole mentre impediscono all’accumulo di effetti di farsi pacchiana EDM.
La coesistenza conflittuale è il pregio del disco, che germoglia felice nelle composizioni in crescendo, srotolandosi pazientemente (Don’t Skip) o prendendo la ricorsa per lo scontro frontale (The Never Ending Road, Gran Finale). Il processo funziona anche all’inverso, come in Take the Crown, che esordisce carica e si scioglie in coda, merito anche della mano di SBCR alias The Bloody Beetroots in fase di produzione, che stempera l’ossessività di cantato e drum machine in un liquido amniotico di fruscii.
Gradevoli le parentesi delicate ereditate dal primo disco (Slow is the New LoudNæturflug), anche in funzione del ritmo dell’ascolto complessivo. Non sempre funzionano invece i momenti in cui l’elettronica la fa da padrona, come in The Wolf, dove il piano si fa sfrontato e il risultato finale sa di dance un po’ datata, o nel pulsare asettico di Bardaginn.
Conviene godersi questo secondo episodio, riuscito compromesso tra perizia nella post produzione e immediatezza classica, sperando che l’ultimo capitolo della trilogia di Dardust non segni definitivamente la vittoria della prima sulla seconda.

Tracce consigliate: Don’t Skip (Beautiful things always happen in the end)Take the Crown