Cervi ci siamo, è arrivato!
L’attesa ci ha corrosi, la curiosità su dove sarebbe andato a parare ci ha spremuto fino all’osso ed ora eccolo qui, tra le nostre tremolanti manine, Everyday Robots, il primo disco solista di Damon Albarn.
Cantante, mente dei Blur, dei Gorillaz, dei The Good, the Bad & the Queen, consacrato come una delle personalità più eclettiche e prolifiche degli ultimi 20 anni, ha deciso di intraprendere questo percorso tortuoso ed estremamente complesso.
Chiariamo subito una cosa, dopo tutti questi anni sulla cresta dell’onda non è per niente semplice stupire, specialmente se hai sempre stupito, se sei stato portabandiera di alcuni generi musicali che tutt’ora hanno grandissima presa sulle generazioni che hai fatto ballare e saltare, gente che ascolta i tuoi primi lavori ancora oggi come fosse la prima volta.
Insomma, non stiamo parlando degli 883 cazzo, qui si parla delle fondamenta del britpop, quello genuino e originale.

Cosa dire; per farvi un attimo capire, il signor Albarn si presenta “in lacrime” dal suo produttore Richard Russell (Boss di XL Recordings) con una sessantina di pezzi, implorandolo di aiutarlo a capire quali tra questi sarebbero stati i più adatti per il disco e dopo un’attenta valutazione, e un lavoro di arrangiamenti e produzione certosino, ecco i 12 brani e i 45 minuti prescelti.
Il via ce lo dà Everyday Robots, title track, primo singolo estratto; l’intro They didn’t know where they was going but they knew where they was wasn’t itè un campione estrapolato dallo sketch “The Gasser” del comico Lord Buckley, riferito all’esploratore Alvar Nuñez Cabeza de Vaca e che sembra essere il motto perfetto per un’invettiva all’alienazione da tecnologia che attualmente ci mette tutti a dura prova, noi androidi di ogni giorno.
Hostiles, chitarre acustiche intimissime, inserti di piano a tirarti indietro rispetto al tempo stesso della canzone, poche, essenziali percussioni, un testo emotivo e straziante contornato dal The Leytonstone City Mission Choir; ho pianto.
Lonely Press Play, secondo singolo, vuole racchiudere tutte le situazioni in cui si dovrebbe ascoltare musica per stare meglio, o peggio, a voi la scelta.
Fin qui tutto bene, una miscela di trip-hop e melodie pop (che per comodità chiameremo trip-pop eheheh) e un insieme di sensazioni circoscritte e personali, da non condividere con nessun’ altro, tanto non sarebbe in grado di capire.
Mr. Tembo è una roba che non c’entra niente, sembra il classico pezzo dell’estate. E’ il più Blur di tutti ed è stato estratto come singolo solo negli US; dedicato ad un elefantino che Damon ha conosciuto in Tanzania e che era rimasto senza mamma. Cioè voi immaginatevi Demon Albarn con l’ukulele e Paul Simonon (occorre che vi dica che è stato il bassista dei The Clash?) mentre cantano una canzoncina ad un elefante ripresi da un cellulare, una roba che non esiste dai. Simpatico eh, ma fuori dal contesto.
Si passa per Parakeet, un intermezzo brevissimo un pò alla Mùm per arrivare a The Selfish Giant, tanto piano, le solite percussioni essenziali e Natasha Khan come un fantasma a doppiare le voci, ci fanno pensare al passato burrascoso confessato di recente da Albarn; “To the dark hills I must go, where the shadows hide. Waiting for the final call, It’s coming down the line”.
You & Me, musicalmente sarebbe stato benissimo in OK Computer dei Radiohead, o in un Heligoland ad esempio, ma anche qui non è che faccia proprio schifo diciamo; sembra rievocare il rapporto dell’artista con il mondo esterno mettendone tacitamente in evidenza le differenze.
Per stessa ammissione di Albarn, i testi sono stati il lavoro più faticoso.
Senza spaziare  troppo con la fantasia ha cercato di palesare a tutti delle esperienze di vita vissuta e il pezzo seguente, Hollow Ponds, sembra di fatto essere il manifesto di questa sua intenzione.
Un altro intermezzo strumentale, Seven High, ci introduce agli ultimi tre pezzi del disco, a nostro avviso i più belli.
Sarà che il tutto si chiude con Heavy Seas of Love, prodotto in combutta con Brian Eno, sarà che Photographs (You Are Taking Now) ha una melodia vocale nel chorus che ti spalanca il cuore, o sarà semplicemente che The History Of Cheating Heart  è una vita intera racchiusa nel cuore di un uomo ormai ultra-quarantenne che sa mentire e che sa molto di più di quanto riesce a far trasparire dalle sue canzoni.

Il disco è un gran bel disco, più lo si ascolta e più lo si apprezza ma è facile cadere nell’errore di sentirlo con superficialità.
Questa è una confessione, Albarn è in ginocchio davanti a noi e va compreso, ogni sua parola va pesata e ci accorgeremo che la vita di questo mostro sacro non è poi così distante dalla nostra.

Tracce consigliate: Hostiles, Photographs (You Are Taking Now)