Succedono cose terrificanti ad Haiti: difficile trovare al mondo una nazione tanto oscenamente disgraziata e povera, passata dal governo di terrore della famiglia Duvalier a una serie di rivolte e controrivolte delle quali non si riesce a tenere il conto per finire con l’epidemia di colera e il terremoto del 2010.
Non è eccessivo dire che l’isola è famosa soprattutto per un prodotto d’esportazione che non è nè il mango nè la papaya: è il voodoo. Non ne è la patria originale ma a livello iconografico rimane, insieme alla Louisiana, il centro mondiale del culto.
Dall’altra parte del mondo William Bennett & Philip Best per venticinque anni quasi ininterrotti hanno tenuto accesa la fiamma atroce della tortura power violence con i Whitehouse, flirtando sempre con quanto di più controverso possibile: dagli omicidi seriali (tra i tanti anche gli stessi sul cui caso gli Smiths scrissero la talvolta mal interpretata Suffer Little Children) al feticismo e alla pornografia estremi, da biechissimi riferimenti nazionalsocialisti tanto volgari da far impallidire Ilsa a ogni sorta di violenza pur di épater le bourgeois. Nel miglior spirito del rapporto fra certa stampa e pubblico vs. buona parte del vituperato mondo industrial tutto questo non è stato mai recepito come provocazione (quale è non sempre ma perlomeno molto spesso) bensì come autentico manifesto d’intenti. Saranno sorpresi costoro di scoprire della nuova creatura di Bennett dopo lo scioglimento dei Whitehouse, il nuovo mostro Cut Hands, a quanto pare perfino peggiore di prima perché invece che declamare il genocidio e lo stupro, combina l’erosivo martellare della techno più rumorosa con le ritmiche tribali dell’Africa e del Centro America nero con un’estetica ora più che mai degna del Barone Samedi. E quindi abbiamo subito chi è pronto a gridare all’appropriazione culturale malevola. È il naturale corso degli eventi per le menti piccole e ottenebrate.

Festival of the Dead è il terzo arrivato in una famiglia verso la quale probabilmente anche il ben più celebre, su queste pagine, Andy Stott ha qualche debito. The Claw, per cominciare bene, è un colpo di maglio allucinante sul sistema nervoso: quasi sette minuti, quasi sempre uguali salvo un paio di momenti, quasi un capolavoro, quasi ballabile se ve la sentite di sacrificare muscoli e sudore alla magia nera di Bennett. Costruita su percussioni inarrestabili lascia solo per pochi secondi il passo ad un intermezzo chiamato I Know What I Must Do e il sacrificio di sangue riprende subito con Damballah 58, meno carica ma ancora più ossessivamente ripetitiva. Ricorre mentalmente una sensazione di umana impotenza di fronte a qualcosa di ancestrale e per citare un’intervista di qualche giorno fa “[…] as a consumer I genuinely like being taken by the hand into a place where I don’t know what’s going on. I want to be taken into the woods, I don’t want to be taken to a place that I’m already familiar with, and I’ll go willingly into that situation. You can extend that to the whole Conrad-esque, Heart Of Darkness, where you’re taken on a journey and you don’t know what’s going to happen during that journey.”
Parataxic Distortion è un incubo ad occhi aperti, verosimilmente indotto almeno a livello ideale da erbe e pozioni allucinogene la cui conoscenza è limitata a pochi. Peggio ancora una volta scoperta la definizione del titolo ovvero “l’inclinazione a distorcere la propria percezione degli altri sulla base della propria fantasia”. I suoni scricchiolanti simili a unghie sulla grafite, il beat notturno fanno intendere di nuovo che non si tratta di un’alterazione piacevole per la psiche.
Trovano spazio su Festival of the Dead tre tracce di provenienza estranea al sottinteso concept: la già citata I Know What I Must Do proviene da un progetto di musica tradizionale greca, Belladonna Theme con i suoi toni filtrati da ovatta bagnta è stata inserita nel documentario sulla pornoattrice Belladonna e infine Fruit Is Ripe, un altro tassello di una colonna sonora mai venuta alla luce. L’ispirazione cinematografica è co-autrice inconsapevole anche di None of Your Bones Are Broken: la pellicola in questione è il perverso Sleeping Beauty.

C’è tanto della migliore scena techno attuale in Festival of the Dead, disgustosa processione di morti per le strade di New Orleans a colpi di drum machine. E c’è tanto che non verrà accolto come meriterebbe perché altri, più giovani, più affascinanti, meno famigerati e maledetti sono arrivati meglio di lui. Eppure William Bennett, bestia mitologica a molte teste, ha una voce in capitolo che non si può ignorare o mettere a tacere.

Tracce consigliate: The ClawParataxic Distortion.