Se la musica dei Bright Eyes vi ha accompagnati in uno o più momenti della vostra vita, non vi sarà difficile riconoscere in Conor Oberst una delle migliori menti della sua generazione, nonché uno dei migliori cantautori degli ultimi vent’anni. Genio precoce e spesso definito erede di Elliott Smith (nonostante quest’ultimo non lo preceda di molto), la poetica di Oberst era autodistruzione, poesia distorta, versi sprezzanti e un’intensità a cui solo una voce imprecisa, spezzata e disperata di adolescente sapeva dare il colpo di grazia. Una delle descrizioni più accurate del talento di Oberst come uomo e artista la dà Jonathan Franzen nel suo romanzo Libertà:

His Tortured Soulful Artist shtick, his self-indulgence in pushing his songs past their natural limits of endurance, his artful crimes against pop convention: he was performing sincerity, and when the performance threatened to give sincerity the lie, he performed his sincere anguish over the difficulty of sincerity.

Terminata l’esperienza Bright Eyes, Ruminations è per Conor Oberst il terzo album propriamente da solista (e senza la Mystic Valley Band), che segue di un anno Payola, il side project punk coi Desaparecidos. Ruminations è il prodotto di un periodo assolutamente negativo per Conor, e nasce di getto, in 48 ore, con una chitarra, un pianoforte e un’armonica, e con un’onestà spiazzante che funge da valvola di sfogo; è uno di quegli album che non apprezzi per la complessità compositiva ma perché vi riconosci l’urgenza terapeutica di scrivere che, sebbene diversa dalle lame affilate dei primi lavori dei Bright Eyes, ne conserva la stessa poeticità.

Conor Oberst ha 36 anni ma appare molto più vecchio: Ruminations è un disco stanco e cupo, che lo vede riaffiorare da seri problemi di salute e da un’accusa (poi ritrattata) di stupro e ricadere nel giro di ansia, droga ed alcool. Ne è prova Tachycardia, il brano d’apertura, che tocca l’argomento del processo e delle ripercussioni psicologiche con delicatezza e dignità – un brano di una semplicità disarmante. La costante dell’album è nella struttura dei brani, molto semplice e quasi schematica: voce e armonica, e un’alternanza quasi simmetrica tra chitarra e pianoforte. Che siano vagamente filastroccheggianti, lente o più rabbiose, è nella scrittura che le tracce acquistano potere liberatorio, ed è nella potenza delle parole che Conor Oberst trova massima realizzazione artistica; ne sono esempi i finali agrodolci di Gossamer Thin (“the mind and the brain aren’t quite the same / but they both want out of this place”) o di Mamah Borthwick (A Sketch) (“I’m not content, but I’m feeling hesitant to build something that’s sacred till the end”). A Little Uncanny, invece, esibisce una ritrovata aggressività musicale e lirica, ricordando Bob Dylan per la prima e Sylvia Plath (citata anche nel brano) per la seconda: “They say a party can kill you / well sometimes I wish it would”. Altro episodio memorabile è Next of Kin, in cui Oberst immagina di dover telefonare a degli sconosciuti per annunciare la morte di un familiare in un incidente stradale, lamentando più avanti la perdita di stimoli causata dalla depressione (“I met Lou Reed and Patti Smith / It didn’t make me feel different / I guess I lost all my innocence”).

Liriche tortuose, voce spezzata e produzione minimale trovano un equilibrio fragile in Ruminations, in cui Conor Oberst riprende a scrivere sul serio – cosa che un po’ era venuta a mancare col disco dei Desaparecidos. Ruminations è difficile da ascoltare perché è così trasparente che non lascia spazio per fraintendimenti: Conor soffre e noi con lui. Ci sono, però, degli sprazzi di luce e di bellezza rintracciabili qua e là: uno di questi è l’amore (“When you press me to your chest I know where I belong”, dice in The Rain Follows the Plow); l’altro, invece, è il potere delle cose semplici, che in un verso di Till St. Dymphna Kicks Us Out sembra quasi una dedica a sé stesso, e che noi a fine ascolto e a fine recensione ci sentiamo di dedicare a Conor e alla sua guarigione:

The blues is here to stay
But sometimes it’s the simple things that make it all okay.

Tracce consigliate: Gossamer Thin, A Little Uncanny