Quello che non mi fa addormentare non è il sociale

Così canta Niccolò Contessa in Sparire, brano di chiusura dell’album Aurora – “non è il triste destino che attende questo mondo cane. Ma è un brivido lucido e nero come di seta, una scossa dal cuore alla pelle, un buio omega”. Ecco, ho sempre considerato, da quando ho fatto caso al peso di questa strofa, che quattro versi del genere possono essere considerati il manifesto tematico del recente panorama indie italiano. Una vocazione artistica mossa da tematiche non sociali, bensì esistenzialiste: raccontare senza direttamente criticare, cacciar fuori un disagio che è né politico, né ideologico, né niente di tutto questo, ma è solo ed esclusivamente un “buio” per l’appunto, una “scossa” intima di cui poco, forse niente, si sa, e che vuole essere sondata e manifestata attraverso il canale musicale. In Polaroid, Carl Brave e Franco126 fanno proprio questo, raccontano la loro percezione dello stare al mondo, con una esattezza e una sensibilità per niente scontata, per questo di grande valore. Chiariamo subito una cosa: prendendo un triangolo che abbia per vertici il pop, l’indie e l’hip-hop, la circonferenza circoscritta che tocca tutti e tre i punti è costituita dal disco d’esordio di Carl e Franco, un album di 10 tracce che ha raggiunto uno straordinario equilibrio di commistione tra essi.

Al secolo Carlo Coraggio e Franco Bertollini, hanno iniziato questo progetto su Youtube, pubblicando sul canale Soldy Music le loro canzoni, fino a che col tempo si è appreso che quei video sarebbero diventati un disco, etichettato Bomba Dischi. Personalmente, credevo che questa inclusione nella nota etichetta indipendente potesse snaturare quel che in loop ormai ascoltavo su Youtube (Dio solo sa i giga andati in fumo), ma la prima considerazione da fare sul disco, e che colpisce in positivo, è che rispetto alle polaroid del tubo è cambiato poco e niente. Qualche aggiustamento nel suono qua e là, ma niente di sostanziale è stato mutato, nemmeno l’ordine in cui i brani sono usciti nel tempo. Già questo è indice dell’ottimo lavoro svolto e della consapevolezza del duo romano.

In Polaroid c’è un forte senso di continuità, uno storytelling narrato da Carl e Franco, le cui voci sono in autotune e quasi sempre sulla stessa tonalità, stesso fraseggio (molto elaborato), quasi fossero cantastorie; uno storytelling, appunto, caratterizzato da una omogeneità al suo interno rocciosa, in cui resta sempre immutato il setting spaziale (Roma) e temporale (l’oggi, il presente, con spesso riferimenti precisi, tipo “le foto porno di Leotta sul tabloid” [Sempre in due]), così come a giro restano immutate le tematiche, messe in contatto tra loro anche con una buona dose di intratestualità: la prima traccia per esempio si intitola Solo guai, seguita da Sempre in due, in cui Franco dice “Io che c’ho solo guai nelle tasche dei miei Levi’s”. Come procede, però, questo storytelling? Si tratta di un racconto non romanzesco, bensì a scorci, a istantanee, ed è proprio la componente episodica che mette in risalto i punti più belli di questo disco. È infatti la componente da cui ne proviene il titolo, la stessa componente che per esempio ha reso grande Bret Easton Ellis, alla fine degli anni ’80, con il libro Meno di zero. Come detto, c’è un perno monolitico di spazio e tempo costituito dal rione, dal presente, dagli amici fraterni, attorno al quale si accendono a si spengono a intermittenza flash di Roma, di sentimenti, di utopie, di storie andate a puttane, di goliardia, di sbronze, di nottate senza senso e di tutto ciò che concerne essere giovani tra i 20 e i 30 anni (ma non solo) nell’epoca e nel mondo corrente.

Questa intermittenza si presenta innanzitutto con il passaggio tra le immagini che non è fatto di dissolvenze, ma di stacchi mozzafiato, resi grazie alla incredibile audacia poetica che entrambi i cantanti imprimono nei loro testi, audacia nutrita da una concretezza per niente astratta e anzi molto reale, ingombrante. Un esempio lampante di questi stacchi sta nel brano eponimo Polaroid, in cui Carl canta “lei è bella bella peccato che è lella / perché piangi alla patente pora stella / t’hanno bocciata perché sei partita in terza”, una strofa esilarante come tante altre proposte da lui, solo che ciò segue fa così: “ho saltato il compleanno di mio nonno / il giorno dopo è morto l’ho abbracciato in sogno”. Una scena comica, e subito dopo, senza filtri, un’evocazione di tristezza assoluta. Tra questi contrasti, inoltre, spesso sono anche incastonati versi o semplicemente sintagmi descrittivi, tipo “il nasone scorre sempre non la smette” [Sempre in due], “tombini tatuati SPQR” [Lucky Strike], “Una graziella rosso fuoco legata a un lampione / un piccione ha fatto il nido sopra a un cornicione” [Per favore], che impreziosiscono la bellezza dei testi, ed aumentano il fattore di realismo che come ho detto credo sia la chiave della poetica dei due.

Un altro andirivieni è quello dei temi dello “stare” e dell’”andare”. In più luoghi, nelle canzoni, si avverte la tensione tra il desiderio di voler fuggire via, ma che finisce sempre allo stesso modo, ovvero restare coi piedi piantati nel rione. C’è Carl che per esempio canta “Ho perso il treno poi l’aereo per Berlino” (Sempre in due), e Franco, rassegnato, “Ti direi ‘dai prendi un aereo e partiamo’, ma tanto ormai…” (Solo guai).
A questo punto però, potremmo chiederci: perché questo continuo riferimento all’andar via? Perché questi ragazzi vorrebbero lasciare, senza mai farlo, il posto al quale sono radicati? Bisogna che specifichi ciò che ho anticipato in apertura.

È vero, le dinamiche sociali e politiche sembrano non avere più spazio nei discorsi degli autori indipendenti, ma c’è da precisare: nelle polaroid, per esempio, non c’è niente che possa ricondurre direttamente alla critica sociale, allo status di canzone di protesta, però intanto Carl in Lucky Strike dice “prendo meno del tuo filippino”, e ancora Franco canta “faccio due lavori e sono entrambi in nero”; sempre Franco in Per favore arriva a dire “hanno coperto quel graffito con il manifesto di un partito”, che non so quanto consciamente l’abbia fatto, ma è un verso che peserebbe come un macigno in un discorso sul rapporto arte/politica. Ancora Carl, sempre in Lucky Strike, attacca con “Due rom fanno un falò con due buste Crai / quel puttanone c’ha sicuro l’aids”, mentre in Enjoy incastona “Sai che so un bravo fijo, lei mangia frutta Bio / è del Fleming ed è come se venissimo da altri pianeti”, dove il Fleming è un’altura di Roma nord in cui abitano per lo più famiglie alto borghesi.

Quindi ecco, non ci sono ragionamenti espliciti sul sociale, ma Carl e Franco e chi fa come loro sembrano dire “io non giudico, non critico, io ti espongo la realtà com’è, la nostra esistenza: ora tira tu le somme”. Come detto, descrivere il disagio, non criticarlo.

In conclusione, altissima poetica, mai banale e mai patetica, anche quando tende a qualcosa di melenso (tipo “mano nella mano si incrocia la mia linea della vita con la tua” [Alla tua]), ma si ferma sempre un attimo prima dall’eccedere; bellissimi contrasti, scorci pittorici, un realismo bello denso, roccioso; quelle intermittenze che generano tensioni importanti; e lo strumentale? Beh possiamo ritenere quel dato – lo scarsissimo editing tra Youtube e il disco – molto significativo circa il prodotto che i due astri della Love Gang hanno confezionato. Ma per aggiungere qualcosa a riguardo, a proposito di contrasti e intermittenze, anche il misto tra analogico e digitale delle basi, in cui il sax si mischia con echi trap, può esserne considerato parte significativa: il risultato è una serie di basi empatiche, alcune molto malinconiche, come quelle di Sempre in due e Enjoy, altre più (concedetemelo a ‘sto punto) presabbene, come Polaroid, Pellaria e soprattutto Noccioline, che ha un groove pari solo a Another One Bites the Dust e al ritmo dei Fichi d’India quando facevano “Tìchiti, tìchiti“.

Polaroid è un disco veramente, veramente valido: valido per la sua consapevolezza sebbene sia molto sperimentale; per la valenza dei testi e delle basi; per la sua intelligenza e onestà; per il fatto che sia nato da due artisti veri, che esistono, che non sono ologrammi di nient’altro, raffinati poeti di strada che riescono a descrivere il loro stare al mondo, che poi è molto spesso anche il nostro; due artisti che sai di trovarli lì, nati e cresciuti tra i sanpietrini.

Bella per Carlo e Franco.

Tracce consigliate: Sempre In Due, Noccioline, Pellaria