Evergreen dà l’impressione che di tutte le strade possibili che un dopo-Mainstream potesse offrire, non ne ha imboccata nemmeno una. Calcutta aveva davanti a sé diverse opzioni, rettilinee ed asfaltate, che lo avrebbero portato in altrettante dimensioni ben definite, ma invece sceglie la strada di campagna, quella laterale e impolverata, che ti porta verso grandi pascoli di pecore enigmatiche, e nient’altro intorno. Si tratta della strada in cui si dimenticano sempre di mettere quel segnale a sfondo blu in cui una T bianca e rossa indica “strada senza uscita”. Ed è lo stesso segnale che dovrebbe essere posto davanti agli occhi di chi, al disco, vorrebbe dare una interpretazione definitiva e organica. Si tratta, questa, di una roba impossibile, perché effettivamente Evergreen è un disco inorganico (a prescindere dal kit per coltivare basilico in dotazione nel vinile) e immateriale. È un disco surrealista, pieno di mostriciattoli travestiti da simboli, letteralmente incomprensibili, ma idealmente avvertibili, che non fanno che confondere le idee e trattenere sempre le parole un attimo prima dal rivelarsi per quello che vogliono significare.

Si parte dall’incipit di Briciole con un “Ti ricordi?”, domanda con la quale si srotola subito chiara l’intenzione di Evergreen: si tratta di un disco che andrà a “pungicare” tra il fluido della memoria, del sistema limbico e del sogno. A proposito del sogno, è un elemento che subentra subito con Paracetamolo, singolo con il quale pure per il merito del video girato da Lettieri, si comincia ad avvertire che Calcutta ha trovato una certa formula per far premere un sassetto sul petto, quando si vede il protagonista del clip spazzare il pavimento del centro anziani, dopo che aveva soltanto immaginato la vita felice assieme alla barista dei suoi sogni, e non a caso sono scene girate proprio nella strofa in cui l’atmosfera della canzone cambia marcia e si fa più grave e straniante.

Entrati in questa atmosfera trasognata, allora subentra Kiwi, e cominciano ad essere leciti i primi veri simboli del disco, con appunto il “campo di kiwi” sotto cui essere seppellito, immagine poetica che introduce invece la tensione del “fammi vedere i calci sui denti / che non mi riesci più a dare”. Si passa poi agli stravolgimenti di Saliva (già suonato anni fa in qualche live), in cui i nei diventano la punteggiatura dei “tuoi discorsi” e la saliva “che risbatte forte come il mare, i miei pensieri a riva”. Ed è proprio il movimento avanti e indietro delle onde sulla battigia che ricorda ciò che questo disco evoca: Calcutta è riuscito ad offrire un album in cui è impossibile porre un punto a qualsiasi tipo di giudizio ad esso si voglia dare. Non si può dire che Evergreen sia solo un disco d’amore, che sia solo musica per scopare, come suggerivano almeno due dei tre singoli di lancio, non si può nemmeno specificare a chi questo album sia indirizzato, se a una donna specifica o a chissà chi altro. È un lavoro che comunica strani sentimenti attraverso strani simboli.

Tuttavia, ben presto si può capire che forse il sentimento strano altri non è che nostalgia, ce lo fa intuire Dateo, strumentale senza cantato che fa sprofondare nella fase rem lo straniamento che il disco costituisce. Ed è allora tutto pronto per la canzone che forse è destinata a diventare la più forte dell’album, Hübner, perché appunto la più zeppa di simboli enigmatici, a partire dal calciatore stesso, e l’immagine della solitudine trascorsa con morsi di unghie, e soprattutto quel mare pieno di tracine, che insieme al “mondo è un tavolo e noi siamo le briciole” [Briciole] e al “sto perdendo tempo / penso che mi va” [Nuda nudissima] crea un contemporaneo atlante sentimentale dello spaesamento.

Gli ultimi minuti dell’album sono quelli di Orgasmo, che parte con un ticchettio che scandisce il tempo. È ora di svegliarsi. Il viaggio della nostalgia è terminato. Ma che nostalgia è stata? Evergreen riesce a installarsi dentro a una bolla di sapone temporale fatta di nostalgia di un’epoca strana. Un’epoca talmente distorta che sembra essere figlia di un sogno. Evergreen e il suo sistema di simboli incomprensibile emanano una nostalgia non tanto di un periodo mai vissuto, ma di un periodo mai esistito. Il senso che il disco trasmette non solo è fuori da un tempo lineare (evergreen è per sempre), ma è fuori pure dal tempo reale. La televisione e i cantautori del passato, il “mio mare”, aridità sentimentale: Calcutta con il suo nuovo album non sembra aver cambiato molto del suo repertorio, ma più semplicemente ha preso i bagagli e ha traslocato in una terra desolata fuori dal tempo, come in un racconto di Michele Mari o Tommaso Landolfi.

Non si ha la chiave di lettura di Evergreen, perché è stata buttata via, o forse perché non è mai effettivamente esistita. Con questo disco Calcutta ha lanciato il sasso e poi non ha nascosto la mano, anzi l’ha mostrata per indicare quella stessa stradina sterrata laterale di campagna che ha imboccato lui. E ritornando indietro perché senza uscita, sotto lo sguardo da sfinge delle pecore, si è da soli con nelle orecchie quel “chap chap” che chiude Hübner.
Evergreen è l’album con cui Calcutta è riuscito a rielaborare i suoi stessi miti e modelli estetici nell’impasto di questo cerchio trasognato, ma soprattutto, imboccata una via laterale, è il disco con cui è riuscito a rielaborare se stesso.

Tracce consigliate: Paracetamolo, Kiwi, Hübner, Rai