Nel corso della sua carriera il buon Dario Brunori è sempre riuscito a stupire sia gli addetti ai lavori che i semplici ascoltatori percorrendo quelle stesse strade che oggi è molto più facile percorrere, vista l’evoluzione e l’esplosione del genere e la sua consacrazione a mainstream del momento. È difficile infatti immaginare tutta la scena IT-pop di questi anni se non fosse mai esistito un disco del calibro di Brunori SAS, vol.1, IL disco di un artista da esportare nel mondo come patrimonio nazionale, ma da Cip! (quinto album del cantautore calabrese) ci si aspettava qualcosa in più, dopo il buon A Casa Tutto Bene di 3 anni fa.

Il disco nel complesso è bello, le canzoni scritte con Dimartino (Capita così, Al di là dell’amore, Quelli che arriveranno) sembrano essere quelli con quel quid in più e il resto è il solito Brunori: bello da star male, ma che ormai sembra voler giocare sempre in casa senza rischiare di fare il passo più lungo della gamba.

La tematica attorno a cui ruota il disco è la difficoltà nell’essere delle persone buone al giorno d’oggi e la scrittura è sicuramente l’arma preferita nel suo arsenale – complice anche la sua enorme cultura ed il saper usare le parole giuste al momento giusto. Che poi risultano non essere banali proprio perché raccontati da lui ma, ascoltando Cip!, sembra che manchi qualcosa; proprio quel qualcosa che avrebbe potuto essere il nuovo passaggio in avanti del percorso intrapreso da Dario di cui vi dicevo prima.

Terribilmente distruttiva è Mio fratello Alessandro, traccia che affronta il volersi bene tramite il bene che si fa ad un’altra persona e che travolge intimamente chi l’ascolta.

Ma visto che un po’ del mio sangue adesso è anche in te
Mi prenderò cura di noi per curarmi di me

Così come La canzone che hai scritto tu, incentrata sul tema di non sentirsi abbastanza per chi si ama per davvero.

E se le parole che ho scritto non bastano più
Buttale via e inventale tu

Siamo a gennaio e abbiamo ascoltato uno dei dischi italiani più attesi di questo 2020 e infatti l’hype attorno potrebbe aver ovattato quello che è un disco semplicemente da Brunori di sempre e non da Brunori in trasformazione. Fare album molto simili tra di loro può sicuramente premiare, ma probabilmente questo poteva essere il momento per implementare una macchina che già funzionava egregiamente. Probabilmente il rischio era troppo grosso.

Tutto il resto poi è semplicemente Brunori, prendere o lasciare.

Anche se, per parafrasare un famoso detto inglese, avrei preferito avere una tazza di tè della stessa marca ma con un aroma diverso, che potesse stupirmi senza dovermi aspettare qualcosa di ben preciso. Siamo di fronte ad un disco non all’altezza delle sue capacità e non perché sia stato chiuso in fretta o prodotto male (le produzioni sono affidate a Taketo Gohara, già dietro ai precedenti album di Brunori) ma perché, a questo punto della sua carriera, doveva esserci quel colpo di coda che avrebbe fatto bene anche alla stessa scena musicale indipendente-non-più-realmente-indipendente italiana, appiattita dallo stesso stile figlio dell’esplosione del genere.

Il disco lo rimandiamo a settembre semplicemente perché è intelligente ma non si applica, sperando che in futuro l’evoluzione dell’artista calabrese non subisca una frenata come nel caso di questi cinguettii invernali.