Lo dico senza vergogna: ho scoperto i Bright Eyes grazie a The O.C. Era il 2004, su Italia Uno andava in onda la prima stagione della serie e l’insicurezza sexy di Seth Cohen aveva già danneggiato me e altre milioni di pre-adolescenti che negli anni a venire avrebbero cercato solo uomini ironici e problematici e si sarebbero dichiarate sapiosexual. Insieme ai Goonies e a Le Fantastiche Avventure di Kavalier e Clay, infatti, il Seth-Cohen-Starter-Pack prevedeva tre band che stavano segnando in modo indelebile l’indie dei primi Duemila: Death Cab for Cutie, The Shins e, appunto, Bright Eyes.
Il periodo che va più o meno dal 2004 al 2007, oltre ad essere il periodo in cui The O.C. viene trasmesso in Italia, è infatti anche l’età dell’oro della band di Conor Oberst, Mike Mogis e Nate Walcott. La parabola ascendente inizia già nel 2002 con l’uscita di Lifted, un album che li fa conoscere al grande pubblico e li porta a suonare per la prima volta in tv da David Letterman, ma il vero botto la band lo fa nel 2005 con l’uscita doppia di I’m Wide Awake, It’s Morning e Digital Ash in a Digital Urn – i cui rispettivi due singoli di lancio, la sempiterna Lua e la svolta elettronica di Take It Easy (Love Nothing) raggiungono contemporaneamente la vetta della classifica Billboard. In quello stesso anno Oberst finisce sul New York Times come alfiere del movimento “new sincerity” (insieme a Joanna Newsom, Modest Mouse, Devendra Banhart) e viene definito da Rolling Stone “the best young songwriter in America”. Il periodo magico finisce più o meno nel 2007 con l’uscita di Cassadega, l’amato/odiato album fino a quella data meglio prodotto dei Bright Eyes, ancora oggi al centro di estenuanti discussioni (il loro album migliore? troppo country? troppo pulito?) da parte della fan-base.
Dieci anni dopo, Conor Oberst è uno splendido quarantenne che gridava cose giuste e i Bright Eyes un gatto alla sua settima vita. Down in the Weeds, Where the World Once Was inizia nel più classico stile Bright Eyes: con un pezzo, Pageturners Rag, che in realtà è un collage di voci – una conversazione sotto funghi allucinogeni tra la madre e l’ex moglie di Oberst, Corina Figueroa Escamilla. Ed è subito nostalgia: un inizio così può solo far tremare le gambe ai fan di vecchia data, cresciuti con l’espediente della canzone d’apertura/conversazione/monologo – iniziano così praticamente tutti gli album della band, da Fevers & Mirrors (A Spindle, A Darkness, A Fever, A Necklace) a I’m Wide Awake It’s Morning (At the Bottom of Everything) fino a The People’s Key (Firewall).
I singoli avevano già fatto ben sperare – la cornamusa inaspettata che svolta la cerebrale Persona Non Grata, la deliziosa opulenza pop di Mariana Trench, la batteria irresistibile che cadenza Forced Convalescence – ma la verità è che Down in the Weeds, Where the World Once Was trabocca di ottimi pezzi: Dance and Sing è un manifesto di speranza e rassegnazione che riassume in due righe l’annus horribilis 2020 (“Got to keep on going like it ain’t the end “) impreziosito da una sezione di archi da perderci la testa, Pan and Broom fa volteggiare dolcemente grazie ai synth anni ’80, Hot Car in the Sun in due minuti scarsi di voce tremolante e piano riesce ad essere uno dei momenti più intensi dell’album, ma, soprattutto, risalta To Death’s Heart (In Three Parts), brano tra i migliori mai scritti da Oberst, con un assolo di chitarra che ti prende e ti porta altrove nel momento in cui pensavi di essere ormai emotivamente sopraffatto (“All these same fears, year after year, all the old ones reappear, the only difference is you’re not here”).
Il tempo delle produzioni low-fi e sconclusionate dal sapore garage, della rabbia melodrammatica e dell’idealismo che hanno reso i Bright Eyes la band perfetta per sopravvivere all’adolescenza, a tutte le sue paranoie e ai suoi perchè-mi-sento-sempre-triste è giustamente finito, e mi stupisce chi pensava che a quarant’anni appena compiuti – dopo la morte di un fratello e la fine di un matrimonio, dopo progetti paralleli così diversi come quello dei Desaparecidos e dei Better Oblivion Community Center con Phoebe Bridgers – Conor Oberst sarebbe rimasto lo stesso di Letting Off the Happiness.
Down in the Weeds, Where the World Once Was è infatti l’album più denso, poliedrico, poetico, intenso e stratificato della band di Omaha; un album che riesce sempre a suonare familiare, sempre distintamente e sfacciatamente Bright Eyes.