Dall’alto dell’albero maestro di una nave, prima o poi un marinaio scorgerà all’orizzonte la linea d’ombra: una soglia esistenziale da varcare, cui l’opera di Conrad ha attribuito un nome in lettere. È l’istante scandito, contemporaneamente intimo ed universale, in cui ciascuno assume coscienza di essere un individuo a sé stante nel mondo e sceglie di muoversi dal porto inospitale della solitudine verso lidi più sereni, maturando durante il tragitto.

La migrazione è una transizione, fisica e d’animo: che si tratti di abbandonare la propria casa per un’altra, un Paese per l’estero o una fase della vita ponendo nuove premesse, ad essere solcate sono le rotte dell’esperienza. Migration si presenta come sottofondo di un viaggio emozionale, vestibile da chiunque nei panni del protagonista, diretto verso quella personale -e sconosciuta- destinazione che è la realtà futura.

Bonobo realizza un esercizio di stile raffinatissimo, componendo un’opera che è una poesia: nelle note del piano, degli archi, nelle sonorità arpeggiate, si schiude ed infrange come frammenti di cristallo una liricità quasi classica, drammatica. Il Nord indicato dalla bussola, riferimento verso il quale il disco si articola, è l’armonia del suono, colmabile attraverso elementi fra loro differenti, eppure complementari:  voci maschili, femminili e corali, delicatissime sinfonie e beat scanditi dalla cassa in quarti. Il producer britannico Simon Green è un artigiano del ritmo, abile nella scomposizione e manifattura di tempi sincopati, costruendo le tracce dell’album secondo una struttura simile (incipit, apertura in levare, conclusione sospesa), ma inclusiva di piccole variazioni che, tutte sommate, non rendono il lavoro monotono, ma esaustivo.

Ben scelte le collaborazioni artistiche, che a Migration attribuiscono un connotato di ricerca e gusto, come l’incontro sul sentiero di personaggi saggi che, con il proprio bagaglio di conoscenza, rendono la strada più chiara da percorrere. L’intensa linea di pianoforte di Jon Hopkins nella title track disegna un livello al di sopra del quale si scatena uno stormo elettronico, come due facce della stessa medaglia che guardano in direzione opposta, come l’ardere della passione oltre un ideale romantico. Break apart, in cui a far da padrona è l’intensa interpretazione del cantante e producer Mike Milosh (vedi alla voce Rhye), è una lettera aperta su una rottura sentimentale, narrata in un privato mea culpa di cui l’ascoltatore è spirituale confessore.

Che l’ultima opera di Bonobo sia elegante e degna di merito è fuor di dubbio: questa non può che riconoscersi come una produzione tipica dell’artista sin dalle prime tracce, potendo Green vantarsi di aver reso certe sonorità immediatamente riconducibili al proprio stile e nome – Outlier risponde definitoriamente alla voce “musica elettronica” in un immaginario dizionario di genere -. Le sorprese maggiori scaturiscono dai pezzi più potenti del disco per ragioni varie, ma confermanti la tesi secondo la quale tutti i tasselli del mosaico si incastrano, pur avendo forma diversa. Bambro Koyo Ganda, incisa con la band nord-africana Innov Gnawa, regala percussioni tribali danzerecce sfocianti in una deriva sintetizzata à la Open Eye Signal, incontro e riassunto globale di culture lontanissime; i canti tradizionali non vengono snaturati, perdendo di autenticità, ma si intrecciano all’elettronica ambientale in una nuova versione stilistica. 7th Sevens è una hit da club quasi più di No reason, in cui a collaborare è Nick Murphy, perché meno spudorata e comunque perfettamente in grado di raggiungere l’obiettivo, sebbene con modi più educati: rispetto al featuring super chiacchierato (brano ideale per un qualsiasi dj-set), infatti, il focus sull’evoluzione del suono è più attento.

Optare per l’alternanza di tracce strumentali a vocali è un’operazione sapiente, destando la concentrazione da una melancolia ovattata senza essere irruenti (Second Sun), come passi in punta di piedi che non turbano il riposo. Immaginate di assistere alla schiusa di una crisalide in slow motion, lasciandovi pervadere dall’incanto.
Da ultima, Kerala, con il bellissimo sample dell’icona r’n’b Brandy, ben incarna le conclusioni che di questo album si possono trarre: Migration è il manifesto di Simon Green, una pietra non sperimentale né azzardata, ma di conferma, di un curriculum vitae quasi ventennale eccellente per classe e delicatezza.

Tracce consigliate: Kerala, Migration