BONAPARTE

SORRY, WE’RE OPEN – Staatsakt

 

Il presupposto da cui bisognerebbe partire nell’affrontare questo disco è che i Bonaparte non dovrebbero essere valutati come gruppo, ma come circo situazionista che fa dell’edonismo, della provocazione e di una sempre presente sensazione di presa per il culo di sé stessi e del loro pubblico la loro stessa ragione di esistere. La parola gruppo è fuori luogo anche dal momento che hanno un unico membro fisso, cantante e compositore di tutti i pezzi, cioè Tobias Jundt, uno svizzero trapiantato a Berlino (e dal momento che la più grande esportazione musicale della Svizzera negli ultimi decenni è stata Dj Bobo – eeehibeeeibe!uh!ah! – anche la sua stessa origine sembra quasi una provocazione). Dal vivo, Tobias si fa accompagnare da una nutrita schiera di figuranti e musicisti, e sul suo palco si può trovare di tutto: ballerini in completo burlesque, animali in uniforme, Marie Antoniette, supereroi, clown (scorretevi voi qualche video su youtube, in ognuno riuscirete a trovare qualche nuovo personaggio imprevisto). Ma se sul palco i Bonaparte puntano tutto sulla sorpresa e sull’inaspettato, non sono da meno su questo nuovo disco. Immaginatevi di affrontare un viaggio lungo 16 tracce alla deriva su una zattera, in compagnia di una ciurma di personaggi ecclettici e zingareschi: è questo che hanno in mente i Bonaparte, e ce lo dicono esplicitamente sin dalla prima traccia, affidata a una voce metallica che declama una poesia intitolata per l’appunto “Sea Gipsy”, opera di un autore americano dell’800, tale Richard Hovey. Dopo questo preludio il loro viaggio entra nel vivo con il singolo “Quarantine”, dove l’anima gipsy del gruppo viene mostrata in maniera ancora più chiara : praticamente una canzone dei Gogol Bordello, se i Gogol Bordello avessero scelto i Death from Above 1979 come loro padri spirituali al posto di Goran Bregovic. Le due canzoni successive proseguono sulla falsariga di un dance-punk che se ormai non rappresenta più il massimo della freschezza, rimane comunque godibile, soprattutto se fatto in maniera non banale come in questo caso, e ci conducono alla traccia 5 del disco, un intermezzo apparentemente inutile, dal nome però curioso: 40°42’48.46 N 73°58’18.38 W. Vado subito a controllare su google maps, e mi salta fuori il Williamsburg Bridge di New York, prima tappa del viaggio immaginario dell’album e chiaro riferimento a un luogo a cui evidentemente devono molto. Ripresa la navigazione, tutto scorre come previsto fino a “Manana Foverer”, dove i Bonaparte rallentano per un attimo regalandoci una canzone perfetta per farci rilassare sdraiati a bordo della loro zattera alla deriva. Per farci riprendere dal relax, subito dopo piazzano, in collaborazione con i Deichkind, “Alles Schon Gesehen”: un pezzo a metà strada fra l’industrial e la scuola tedesca più maranza, quasi alla Scooter. Forse non a caso, dal momento che subito dopo si arriva al secondo intermezzo-tappa dell’album: 53°32’26.81 N 09°58’47.28 E, delle coordinate che google maps rivelano appartenere al porto di Amburgo. Si riparte sempre a velocità sostenuta con “Quick Fix” e “High Heels To Hell”, si finisce un po’ in secca con “In The Breaks”, per poi arrivare alla terza tappa, situata alle coordinate 40°51’42.94 S 173°00’46.63 W: ovvero nel mezzo dell’oceano Pacifico. Ora, pur non avendo alcun elemento per giustificare questa mia supposizione, la parte di me a cui piace crearsi storie in testa mi fa immaginare che con tutto questo i Bonaparte vogliano raccontarci un naufragio finale della loro zattera. Una chiusura in tragedia per il viaggio messo in scena in “Sorry, We’re Open”, quindi? Niente affatto, perché manca ancora l’ultima traccia dell’album, “Bonahula”, dove i Bonaparte ci salutano con un’interessante pezzo un po’ swing, un po’ tropicale: e a questo punto la mia storia in testa ha ormai preso forma, e mi immagino il loro approdo di fortuna su un’isoletta nel mezzo del Pacifico, luogo da cui prendono commiato alla fine del loro viaggio. Un lungo viaggio, con qualche deviazione che forse si potevano risparmiare per rendere il tutto più denso e diretto, ma che comunque conferma i Bonaparte come un caso interessante e di certo unico all’interno di una scena che spesso esagera nel suo prendersi troppo sul serio.