Il progetto Bon Iver affonda le proprie radici nella sofferenza e nella solitudine di Justin Vernon, trovando terreno fertile ogni qualvolta il polistrumentista di Eau Claire attraversa momenti difficili o vive periodi di sorprendente serenità, tracciando un percorso che racconta la crescita personale e il trionfo artistico di un musicista che ha saputo mettersi in gioco e reinventarsi nel corso di oltre una decade. i,i, quarto album firmato Bon Iver, è un disco che, per essere apprezzato a pieno, richiede pazienza e capacità ermeneutica: di primo acchito si può avere l’impressione di ritrovarsi di fronte ad una compilation di B-sides, poiché ciascuna traccia è, a suo modo, reminiscente di lavori pregressi, ma è con gli ascolti ripetuti che si riesce a districare la matassa e a capire la complessità di un’opera che rivela la propria grandezza se ascoltata nella sua interezza.

i,i è un labirinto, è un miraggio che cerca di ingannare l’ascoltatore allo scopo di fargli scoprire tutti i suoi livelli di lettura. Partendo dal titolo, l’utilizzo della prima persona singolare potrebbe far pensare ad un’opera autocelebrativa, ma l’uso del carattere minuscolo è il primo elemento a suggerire che, con questo album, Justin Vernon non vuole imporsi con tracotanza, ma scomparire nella collettività per celebrare Bon Iver, il progetto che lo ha salvato.

A differenza di 22, A Million, la componente sperimentale è meno accentuata e la dimensione elettronica si sposa con quella acustica. Nel ruolo di regista, Justin Vernon funge da faro per una serie di artisti eterogenei (James Blake, Aaron Dessner, Francis Starlite solo per citarne alcuni) che potrebbero generare un caos ingestibile: in assenza di una sezione ritmica tradizionale, un codice morse composto da synth, chitarre, archi e fiati crea un’atmosfera eterea in cui la voce rimane sospesa, libera di muoversi in qualsiasi direzione, come in un fiume talvolta calmo, talvolta impetuoso.

iMi, in apertura, è tra gli esempi più lampanti di come Justin sia riuscito a trovare il giusto equilibrio tra sperimentazione e tradizione, sfiorando la cacofonia per dar vita ad una composizione che suona inequivocabilmente come una traccia dei Bon Iver.
Salem, Hey, Ma e RABi sono di più facile fruizione e risultano immediatamente piacevoli e rassicuranti nella loro familiarità. Faith è tra le tracce più ambiziose dell’album ed è un esperimento riuscito soprattutto nel suo crescendo coinvolgente.

Non si può dire che Justin Vernon sia mai stato uno di quegli artisti che offrono chiara interpretazione al proprio lavoro, ma i titoli e i testi di i,i sono, rispetto ai suoi predecessori, enigmi solo all’apparenza e la soluzione a ciascun quesito si trova all’interno delle stesse canzoni: iMi deve il suo nome al ritornello “I am I am I am I am” e RABi al verso “I could rob I however”, mentre il motto utilizzato in fase di pre-lancio del disco, “Keep it restaurant”, è con grande probabilità semplicemente un inside joke, dato che corrisponde ad un’errata interpretazione di “Keep it rational”, più volte ripetuto in Sh’Diah.

Come tipico nei lavori di Justin Vernon, la dimensione spirituale permea l’intero disco, più che mai ricolmo di un’atmosfera di fede e speranza. Questa volta, però, la sofferenza e la morte si contrappongono alle piccole gioie della vita:

Well, it’s all just scared of dying
But isn’t this a beach?

O ancora:

Nothing’s gonna ease your mind
Well, it’s all fine and we’re all fine anyway

La spiritualità è presente anche musicalmente e si riscontra nei frequenti cori e in particolare nell’ispirazione Gospel di U (Man Like), probabilmente la traccia in cui lo sforzo collaborativo è più evidente, grazie al piano di Bruce Hornsby e all’inconfondibile voce di Moses Sumney.

Non manca l’attualità con Sh’Diah (nonché Shittiest day in American History), chiaro riferimento all’elezione di Donald Trump , una traccia in cui, nella prima metà, il falsetto di Justin cavalca dolcemente un synth, per poi lasciare spazio all’assolo di sassofono di Mike Lewis, capace di esprimere ciò che non si può comunicare a parole.

Con Jelmore, traccia strumentalmente piuttosto povera, ma con un testo carico di significato, Justin tratta invece il tema dell’emergenza ambientale:

How long will you disregard the heat

Per quanto i,i sia complessivamente un album riuscito, non si può sorvolare su alcune tracce che stridono e suonano poco coerenti all’interno del disco: è il caso di We, frutto della collaborazione con Wheezy, uno dei produttori di Young Thug e Future, in cui l’asprezza della prima parte non dialoga con la leggerezza ottimista della parte conclusiva. Marion, nella sua mono-dimensionalità, risulta quasi banale, sia musicalmente, tanto da evocare il sound acustico di For Emma, Forever Ago, sia nel testo, che con la continua ripetizione di “Well, I thought that this was half a love” richiama inevitabilmente “Well, I’ve been carved in fire”, di ___45___, da 22, A Million.

Altra nota dolente è l’uso non sempre controllato del falsetto che in Holyfields, e Naeem si trasforma in una sorta di strillo che dà più l’idea di essere una parodia di Justin Vernon che l’espressione viscerale di un’emozione.

i,i riesce nell’impresa di sintetizzare in un’unica opera la discografia di Bon Iver, facendo coesistere con maestria gli elementi distintivi di ciascun album: il minimalismo e l’autenticità di For Emma, Forever Ago, la complessità disarmante degli arrangiamenti di Bon Iver, Bon Iver, la destrutturazione, l’ermetismo e la sperimentazione in chiave elettronica di 22, A Million. Con questo disco si chiude il primo ciclo del progetto, lasciando un enorme punto interrogativo sul suo futuro.

La crescita artistica di Justin Vernon non può prescindere dalla rivoluzione: non possiamo dare per scontato che la storia di Bon Iver si arricchisca di un nuovo capitolo, ma, se mai dovesse arrivare, possiamo scommettere che, nel bene o nel male, ci lascerà a bocca aperta.